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Il massacro di Srebrenica nel diario di un sopravvissuto (Il Piccolo 02 lug)

di AZRA NUHEFENDIC

Quel giorno, il generale serbo Ratko Mladic si sentiva come Dio. L’11 luglio 1995 svuotò quella cittadina della Bosnia orientale, Srebrenica, dai suoi 40 mila abitanti, musulmani bosniaci; trentamila tra donne e bambini furono deportati e più di ottomila uomini e ragazzi uccisi.

La città, il cui nome diverrà il simbolo degli orrori delle guerre moderne, come Lidice, Oradour, Babi Yar o Katin, venne così “regalata al popolo serbo”.

Il massacro che accadde a Srebrenica fu un genocidio, come stabilì, in modo inequivocabile, il Tribunale delle Nazioni Unite dell’Aja per i crimini di guerra.

Contro ogni previsione, Emir Suljagic, un giovane musulmano bosniaco, sopravvisse. «Io sono vivo perché Mladic aveva il potere assoluto di decidere sulla vita e sulla morte» scrive Suljagic nel suo libro “Cartolina dalla fossa”. Il generale Mladic guardò la carta d'identità di Suljagic, gli chiese che cosa stesse facendo e poi gli disse che poteva andare.

Suljagic aveva 17 anni quando iniziò la guerra. Imparò l’inglese e divenne un interprete per le Nazioni Unite a Srebrenica. Questo gli salvò la vita.

Il libro “Cartolina dalla fossa” è una toccante testimonianza sulla vita a Srebrenica, zona protetta delle Nazioni Unite, che dalla primavera del 1992 fino al luglio 1995, fu assediata dai serbo-bosniaci comandati dal generale Ratko Mladic.

L’ex presidente dei serbo Bosniaci, Radovan Karadžic, (in questi giorni si sta svolgendo il processo a suo carico innanzi al Tribunale Penale Internazionale dell’Aia) all’epoca firmò l’ordine ai suoi militari «di creare a Srebrenica una situazione di totale insicurezza e disperazione». Il suo ordine venne eseguito. L’assedio di Srebrenica è stato crudele e la sua fine ancora più spietata.

A Srebrenica, prima della guerra, vivevano circa dodicimila abitanti. Il numero dei profughi in città era cresciuto fino ad oltre quarantamila persone. Molti sono stati costretti a vivere per strada a rischio di congelamento, sotto un bombardamento costante e gli spari dei cecchini.

«Non fu uno scontro tra due civiltà convinte che la propria salvezza consisteva nello sconfiggere l’altra. No, è stata una guerra nella quale, noi bosniaci, eravamo stati condannati a morte in anticipo», afferma Suljagic.

L’autore si ricorda bene il momento preciso in cui la guerra nei Balcani ha superato la sua vita. È stato il 12 maggio 1992. Assieme al padre, guardava da una collina boscosa le colonne di camion che, dalla riva serba, attraversavano il fiume Drina ed entravano in Bosnia per raccogliere i musulmani espulsi dai loro villaggi giù, nella valle. «Guardando l'operazione serba di quel pomeriggio, la prima reazione fu di correre per la nostra vita. Ed è proprio quello che mio padre ed io abbiamo fatto», scrive Emir Suljagic.

La salvezza l’hanno cercata a Srebrenica, uno straccio di territorio ancora libero nella Bosnia orientale. Per migliaia di bosniaci, compreso il padre e il nonno di Suljagic, si rivelò una trappola mortale. “Eravamo spinti nella città da dove i serbi avevano portato via tutto fino all’ultima briciola. Non avevamo altra scelta se non morire”.

Centinaia di libri sono stati scritti su Srebrenica, “Cartolina dalla fossa” è l’unica testimonianza di un superstite. Già questo fatto sarebbe sufficiente a renderlo prezioso, ma Suljagic scrive anche molto bene, ha il talento di un romanziere.

“Cartolina della fossa” non è una scrittura furibonda. Emir non odia, non cerca vendetta, non insulta, non urla; il suo è il resoconto su come sopravvivere all'assedio. «Ho notato che la fame aveva completamente alterato la mia personalità. Dal ragazzo, che prima della guerra era timido e riservato, ero diventato aggressivo e senza scrupoli. Questo mi ha spaventato, ma ho capito subito che si trattava di una mera questione di sopravvivenza», conclude Suljagic.

Il libro ci fornisce molti dettagli su com’è stata organizzata la difesa della città, su come la fame, la miseria e la disperazione cambiava la gente fino a portarli al punto di perdere ogni decenza, ogni forma di umana solidarietà, su come funzionava il contrabbando, sull’ipocrisia dei caschi blu, sui suoi amici che, costretti a combattere, «non facevano la guerra ai serbi, ma guerreggiavano per tutte le estati che sarebbero venute sulle rive del fiume che era stato loro sottratto, per tutte le ragazze che non avrebbero più passeggiato al tramonto lungo il corso principale», scrive Suljagic.

Quelle situazioni estreme cambiavano non solo gli individui, ma anche la comunità perdeva le caratteristiche di una società civile. C’erano tanti testimoni, quando, correndo per ottenere gli aiuti umanitari lanciati su quell’enclave, suo zio venne ucciso. Ma al killer non accadde niente a causa delle sue connivenze con i potentati locali: «Non c’erano leggi e l'autorità pubblica si basava sul reciproco equilibrio del potere», conclude Suljagic, precisando che quello che il mondo esterno chiamava esercito bosniaco, era in realtà un gruppo di personaggi disuniti, mal organizzati, con diverse idee e diversi scopi.

La capacità di osservare di Suljagic è straordinaria. Scrive, tra altro, di un nemico strano, invisibile, che gli assedianti, i serbo bosniaci, ad un certo punto dovettero affrontare: l’ira di gente disperata, la furia di chi non spera più in niente e che reagisce d’istinto.

In questo contesto, Suljagic scrive sull’attacco dei musulmani bosniaci al villaggio serbo di Kravice, il 7 gennaio 1993, la Notte del Natale ortodosso. L’attacco si concluse con molte vittime serbe e a Srebrenica nessuno ebbe compassione o pietà per quelle vittime. «Sia come sia, quella si rivelò una macchia sulla nostra vittoria, altrimenti pura come un cristallo», afferma l’autore ed evidenzia: «Anche quello era un segnale inconfutabile che stavamo diventando sempre più simili ai serbi, a ciò che loro erano, ossia a ciò che loro desideravano noi diventassimo. Forse questo avvenne prima che chiunque se lo aspettasse, ma era inevitabile che le vittime – ma questo è solo il mio pensiero – in quelle circostanze iniziassero a somigliare al carnefice».

L’attacco al villaggio serbo di Kravice spesso viene indicato come pretesto per l’assalto finale a Srebrenica. Oggi, i serbo bosniaci cercano di equiparare i due eventi, l’assalto a Kravice e il genocidio di Srebrenica. Il Parlamento Europeo ha proclamato l'11 luglio “Giorno della memoria per le vittime del genocidio di Srebrenica”. I Serbi, invece, due giorni dopo, il 13 luglio, commemorano i propri morti con una cerimonia che si tiene a Bratunac, la città più vicina a Srebrenica.

Una delle scene più toccanti del libro è quando Suljagic descrive come la gente veniva da tutta l'enclave per avere l'opportunità di parlare tramite i radioamatori della città, con i propri parenti e amici altrove. «Nessuno ha mai detto Ti amo. Mai una dichiarazione aperta d’amore passò attraverso i cavi, le antenne e l’etere. Eppure, mai da nessuna parte c’è stato più amore concentrato su un solo punto in quella penombra, in una sala grigia con le sbarre alle finestre».

 

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