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Il Giornale di Brescia – 290507 – Dove l’Istria italiana morì con Norma

di Valerio Di Donato

«Vedi, questo xè il prato dove i meteva i cadaveri tiradi fora» («è il prato dove adagiavano i cadaveri tirati fuori»). Mario Suran, un contadino dalle mani grosse e callose che sanno di terra smossa, mi avverte con poche ma essenziali informazioni che siamo finalmente arrivati alla meta. Là dove sessantaquattro anni fa c'era una spianata erbosa, utilizzata come camera mortuaria a cielo aperto, oggi dilaga una macchia arruffata e inselvatichita. La foiba è lì dietro, perimetrata da una approssimativa e blanda recinzione in filo di ferro («per non fare cadere gli animali», è la spiegazione).

Il resoconto del viaggio sulle tracce delle memorie divise di italiani e croati, ancor più lontane tra loro dopo la polemica di febbraio fra i presidenti Napolitano e Mesic, non può che iniziare da Villa Surani. Dalla foiba dove finì le sue pene indicibili Norma Cossetto, insignita nel 2006 dal presidente Ciampi della medaglia d'oro al merito civile e divenuta la martire-simbolo in Italia della tragedia istriana nella sua globalità. Come tutte le memo¬rie scomode, o contestate, non c'è cartello stradale, indizio toponomastico e meno che mai percorso facilitato, che ti illumini sulla giusta via da prendere. Bisogna affidarsi alla benevolenza e alla cortesia della gente del posto, altrimenti è una caccia al tesoro senza riferimenti, fra sentieri, viottoli e campagne troppo uguali fra loro.

 Io devo ringraziare il signor Miljenko Bencic, ex direttore della fabbrica statale «Pazinka» , ex sindaco di Pisino, e soprattutto ex segretario del Comitato Popolare di Liberazione dell'Istria, dopo l'8 settembre 1943. Insomma, un auto¬revole vecchio comandante di quei partigiani titini che in Italia fanno ancora venire il sangue agli occhi a tanti esuli giuliano-dalmati.

«Voglio vedere tutte la facce del dramma istriano, calcare i luoghi delle mattanze incrociate, ascoltare testimonianze e opinioni», gli avevo spiegato. Foibe utilizzate come atroci patiboli dai combattenti jugoslavi. E villaggi incendiati dalle milizie fasciste, con o senza il supporto dell'alleato nazista, nel corso di feroci rappresaglie alle incursioni partigiane. «Mi interessa comporre insieme, nello stesso ideale cammino, il puzzle della Storia – spiegavo a Miljenko Bencic -, per cogliere la contiguità storica e umana delle due memorie». Perché una visione non «politica» della vicenda, mi dice da tempo che si tratta di soggetti non isolabili di un affresco complicato, da far riaffiorare scrostando con pazienza e attenzione gli strati posticci delle propagande contrapposte.

Per arrivare a Surani, da Antignana (Tinjan in croato), bisogna abbandonare la veloce e nervigna statale che da Pisino (Pazin) sfocia una trentina di chilometri più ad ovest sulla costa magica di Parenzo (Porec), definita dal poeta gradese Biagio Marin «città tutta nobile», «nelle pietre e nelle case» come nelle «anime degli uomini». Il ritmo cambia di colpo. Ci si mette al trotto lungo serpentine di asfalto corroso e sbiadito, così poco anni Duemila e molto anni Settanta. Traffico quasi inesistente. Guidare nei recessi dell'Istria interna è un po' giocare, tagliando curve assonnate, come accompagnati da una ubriacatura leggera. Coltivazioni curate e mac¬chia spontanea scorrono alternandosi irregolarmente, fra piane e collinette battute dal vento e mi¬nacciate da una sete evidente di acqua piovana.

Non ci sarei mai venuto, nello spettacolare anticipo d'estate regalato dalla settimana dopo Pasqua, se non per conoscere, capire, affrontare la storia dimenticata, ma sempre controversa e palpitante, di una terra di frontiera. Attento a cogliere i segni dolorosi delle tragedie, così come i sogni, realizzati o delusi, di vinti e vincitori, dominanti e dominati, che in questo fazzoletto adriatico (a osservarla bene sulla mappa, la penisola istriana sembra proprio una «pochette» rovesciata) si sono dati il cambio, nel secolo «maledet¬to», cinque volte in ottant'anni: Impero austro-ungarico, Italia regia e fascista, Repubblica Sociale Italiana in simbiosi col Terzo Reich, Repubblica Federativa Jugoslava, Repubblica democratica di Croazia.

«Vedrai – mi aveva avvertito e incoraggiato prima di partire Furio Radin, deputato della minoranza italiana al Sabor, il Parlamento croato -, troverai ancora ben visibili le ferite profonde lasciate dai nazionalismi, che dobbiamo rimarginare insieme, a Zagabria e a Roma, mettendo insieme le storie lacerate del Ventesimo secolo. Soltanto così ci potrà essere una vera riconciliazione».

Il vecchio partigiano Miljenko Bencic, da buon istriano autoctono, oltre al croato, padroneggia bene lo slang tipico di queste zone, la parlata «istro-veneta». Nient'altro che una variante locale del dialetto veneto, irrorato da assonanze e termini derivanti dallo sloveno, dal croato e dal tedesco. Un consolidato capolavoro linguistico, zenit espressivo delle culture che da secoli si affiancano e confrontano in questo crocevia di tre mondi, l'italiano, lo slavo e l'austro-germanico. Un retaggio della Mitteleuropa, certo, ma anche il frutto della inestinguibile anima latina e veneziana che riluce più chiaramente dalle pietre delle cittadine e dai tesori dell'arte.

È nel villaggio di Montreo, fra Surani e le pendici del Monte Croce, che siamo attesi da Mario Suran. Come vede Bencic, sorride e lo abbraccia Un bicchiere di Malvasia per mettere a proprio agio l'ospite venuto dall'Italia e via in macchina. Prendiamo una stretta vena asfaltata che lascia presto il posto a uno sterrato poco invitante. L'utilitaria balla, sussulta e derapa, devo rallentare, ingranando spesso la prima. Scendiamo e ci avviamo a piedi, come cercatori di funghi fuori stagione.

L'impatto con la foiba di Villa Surani, da un punto di vista freddamente scenico, è «deludente». Un folto cespugliame disturba la vista dell'imboccatura Poi, trovato il giusto angolo prospettico, l'orrido si profila, scuro e largo. Qui all'alba del 5 ottobre 1943 fu gettata, ancora viva, Norma. Con i suoi 23 anni, una laurea in Lettere che l'aspettava di lì a pochi giorni, la fede «entusiastica» nel fascismo (come Fredriano Sessi non ignora nel suo bel libro «Foibe Rosse»), l'incolpevole sorte di avere per padre un uomo decisamente ingombrante, ucciso anche lui in quei giorni di sangue mentre cercava la figlia catturata (Giuseppe Cossetto, proprietario terriero, era stato Commissario governativo delle Casse Rurali della Provincia di Pola e per lunghi anni Podestà oltre che segretario del Fascio di S. Domenica di Visinada e tra i massimi gerarchi del regime in Istria). Ventisei corpi martoriati, fatti precipitare per 135 metri, vennero riportati in superficie l’11 dicembre 1943 dai vigili del fuoco di Pola del maresciallo Harzarich. La controprova che non si tratti di una falsa pista, di una controfigura dei burroni della morte, è scritta nel drappo bianco, rosso e verde che si dipana come un grande tovagliolo dalla bocca spalancata della foiba.

«La bandiera l'hanno messa lì gli esuli», mi spiegano. Villa Surani, Vines, Terli, Gallignana, Gimino, Cregli: l'elenco delle voragini carsiche che tra la fine di settembre e i primi di ottobre del 1943 inghiottirono in Istria alcune centinaia di persone, italiane e non, è troppo lungo da riportare per intero. Sono 24 quelle identificate e rappresen¬tano la prima stagione delle esecuzioni sommarie che per comodità vengono riassunte nel termine «foibe», ma comprendono varianti come fucilazioni nelle cave di bauxite, annegamenti in mare, imbosca¬te isolate a funzionari ed esponenti dell'Italia pre-armistiziale, come pure a possidenti e ricchi commer¬cianti. I «nemici di classe» della nascente rivoluzione proletaria.

L'altra, ben più massiccia ondata, investì tra il maggio e il giugno del '45, a guerra finita, tutta l'area della Venezia Giulia Ma la resa dei conti con la guerra fascista e nazista è iniziata qui, nel cuore profondo dell'Istria oggi croata. (1 – continua)

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