I ricordi in musica di Mario Fragiacomo al Campo Profughi di Padriciano

Padriciano 226 Baracca 8 color verde – Porta 8
Questo era l’indirizzo di mia zia Rosa, sorella di mia madre, profuga da Capodistria che qui ha vissuto qualche tempo nel 1956. Con i miei genitori andavo periodicamente alla domenica in visita al Campo.
Per chi non lo sapesse, il campo profughi si trova a mezza strada sulla Provinciale Basovizza-Opicina dell’altipiano carsico di Trieste. Il paese di Padriciano è ad un tiro di schioppo.
La “corriera” proveniente da Trieste, ti porta alla fermata più vicina sulla strada provinciale 1 del Carso con l’indicazione del numero civico 226 (ex campo profughi di Padriciano), ora Museo di interesse nazionale a circa 300 metri di distanza, che si raggiunge comodamente a piedi in qualche minuto. Mi dicono che c’è tuttora questa fermata dell’autobus che parte da Trieste Stazione Centrale per raggiungere Padriciano. E’ il numero 39 dei servizi di trasporto pubblico di Trieste.
L’utilizzo per un temporaneo rifugio per i profughi istriani e da coloro i quali per ragioni politiche o religiose abbandonarono nell’immediato dopoguerra la loro Patria d’origine era stato adottato negli anni ’50 dall’Unione degli Istriani di Trieste, dopo il Memorandum di Londra ed il conseguente ritiro delle truppe alleate dal TLT, per far fronte alla sempre più pressante emergenza profughi dovuta all’esodo dalla Zona B dell’Istria del ’54 e ’55.
“Per una storia dei campi profughi istriani, fiumani e dalmati in Italia (1945-1970). Esposizione presso il C.R.P. (che sta per Centro Raccolta Profughi) di Padriciano sul Carso triestino. Ingresso su prenotazione”. Così si presenta oggi l’edificio museale del Campo.
Il primo rifugio per lo smarrimento e le paure subìte dai profughi era proprio questo Campo recintato, quasi una prigione, con cemento e filo spinato, ha scritto qualcuno.
Il grande comprensorio venne progettato qualche anno prima, alla fine della seconda guerra mondiale come alloggio militare per le forze armate angloamericane alleate di stanza nel TLT ossia nel Territorio Libero di Trieste (1947-1954).
Dopo il ritiro delle truppe alleate la grande trasformazione. Il grande edificio in muratura quasi difronte all’entrata principale, con un varco a doppia cancellata controllato con una postazione del servizio di Polizia Civile, era stato adibito alla scuola elementare per i bambini del Campo e sulla sinistra dall’accesso principale un altro edificio fu destinato all’asilo. Ora invece nell’edificio grande troviamo il museo. Poi ai lati e davanti l’edificio grande si trovavano diverse file di baracche, circa una quarantina, sia a destra che a sinistra dall’entrata principale, in legno variopinte, bianco, verdognolo, azzurro pallido in stile modello “Pasotti” ossia con tetto con lastre di amianto-cemento tipo eternit con fondamenta in cemento e tre gradini d’entrata, naturalmente prive di riscaldamento ed acqua corrente: “quattro metri per quattro la misura di una postazione della baracca e in cinque dovevamo stringersi nel dormire e nel mangiare in un disagio che fa soffrire” sostiene Fiorella Sabadin in un racconto. Altro racconto interessante del Campo quello di Luciana Melon che ha vissuto da bambina questa esperienza. Per farsi una idea meno confusa e circostanziata della difficile accoglienza che venne dedicata ai profughi giuliani in Italia nei campi profughi fuggiti dalle vessazioni e dalle persecuzioni subite dal regime comunista di Tito in Istria, Fiume e Dalmazia nel dopoguerra, bisognerebbe leggere anche i libri delle testimonianze dirette dei profughi che hanno vissuto sulla propria pelle l’esodo giuliano come quelli della cara amica Marisa Brugna esule da Orsera nel bellissimo libro “Memoria negata” o della citata Luciana Melon fuggita da Buie con la famiglia nel ’55 con il suo nuovo libro “E poi tutto cambiò” ma anche tante altre poco conosciute e tante altre anche famose.
Quando passo per Trieste diventa quasi sempre il mio viaggio personale della Memoria, sento il bisogno di rivedere il Campo, e ogni volta mi reco sul posto senza prenotazione. Alle volte, specie in inverno lo trovo chiuso e allora sfodero la mia tromba e do sfogo ai miei squilli di tromba da fuori. Lascio la strada provinciale e al cartello “Padrice, Padriciano” posto all’angolo destro della recinzione del Campo svolto in una strada sterrata proprio dove si può vedere all’interno del campo un piccolo edificio con la scritta “deposito manutenzione” e qui, nella tranquillità della strada e della boscaglia carsica che penso prosegua fino a raggiungere l’antico borgo di Gropada, sfodero l’ottone suonante per intonare la musica che avevo composto in occasione della prima lettura di una poesia, ossia di quei versi di un ignoto poeta istriano che tanto mi avevano colpito ….
“Un giorno, forse si racconterà di un popolo che per vivere libero andò a morire lontano” è diventato un brano musicale del repertorio del Mitteleuropa Ensemble gruppo che ho coordinato per molti anni a Milano. È facile toccare la commozione sfoderando pianoforte e violini a casa o magari in qualche teatro o in uno studio di registrazione. Il mio suono invece esce spontaneo proprio, come dicono qui in America, “On the road”. Lì dentro tra le mura del comprensorio o fuori dal Campo, ma è lì e riecheggia nella landa carsica tra la boscaglia con un riverbero che soltanto la natura sa ricreare.
Negli edifici multipiano del campo, ora dismessi c’era la mensa del campo, i bagni in comune e l’ambulatorio medico e cronicario. Guarda caso, l’ho scoperto da poco grazie alla scrittrice Luciana Melon che il medico dell’ambulatorio nel terzo padiglione del Campo era il dottor Claudio Micalescu, lo stesso medico di famiglia che avevo quando vivevo nella mia infanzia a Trieste con lo studio medico in Via Udine. Mai ho saputo che avesse avuto anche questo incarico al Campo profughi di Padriciano. Comunque alle dieci del mattino ci si metteva in fila per mangiare. Il primo della fila, mi diceva Romano il custode attuale, era il più fortunato perché trovava un pasto caldo ed abbondante mentre l’ultimo un pasto freddo ed anche scarso!
Nel grande edificio centrale che recentemente è stato restaurato c’era la scuola mentre ora è allestita una mostra permanente della vita nel campo dei rifugiati dell’esodo istriano, fiumano e dalmata ma non solo di etnia italiana, c’erano anche diversi croati e sloveni che hanno scelto di lasciare la loro terra in cerca di un lavoro dignitoso all’estero per fuggire dall’apparato dittatoriale, persecutorio della Jugoslavia del maresciallo Tito. Diversi anche del piccolissimo popolo dei Cici, soprattutto provenienti dall’area istriana attorno al Monte Maggiore/Ucka che hanno scelto di emigrare per migliorare la loro vita in America, Sud America, Australia, oppure in Canada dove sembra venissero accolti volentieri offrendo loro una casa e un lavoro. Alcuni di origine istroromena (Vlahi o Valacchi) che parlano nella versione “Ciribiri” li ho trovati qui a New York nel dipartimento di Astoria. Cognomi come Brencella, Jurman, Celic, Prodan, Belulovich, Tercovich, Cvecic ed altri.
Nel grande salone interno dell’edificio museale ora sono state ammucchiate tante sedie e masserizie, quasi una montatura effettistica per uno spettacolo teatrale. Ma non è uno spettacolo. Le masserizie originali sono provenienti dai magazzini del Punto Franco Vecchio del Porto di Trieste ove gli esuli furono costretti ad abbandonarle. Sono tante sedie, armadi, casse, tavoli, quadri, credenze, utensili e tanto altro….. masserizie con ancora l’originale etichetta cartacea del trasportatore che gestiva i transiti dal momento dell’arrivo dei profughi fino alla consegna e deposito negli squallidi hangar portuali di destinazione. Masserizie “tormentose” dico io, che ti provocano riflessioni e grande turbamento.
Mi dicono, che recentemente davanti all’edificio centrale sono state poste alcune pietre carsiche bianche ed ognuna porta una incisione di un pensiero.
Mi piacerebbe proprio che quell’ignoto poeta istriano potesse avere anche lui un posticino per poter incidere la sua poesia che ha fatto il giro del mondo trainata dagli squilli laceranti di … quella tromba di latta del confine orientale italiano. Non scrivo il nome e cognome altrimenti vengo citato di autocelebrazione. Nel 2005 quando visitai per la prima volta il Campo dopo tanti anni di assenza da Trieste ricordo di aver lasciato in una pagina del libro dei visitatori oltre la mia firma e la data come d’uso, anche una piccola citazione di quei versi misteriosi che conoscevo a memoria. Pensate che, quella pagina strappata dal libro dei visitatori è rimasta appesa con delle puntine da disegno multicolore in una bacheca dell’esposizione museale per oltre 18 anni! Ci sarà ancora?
Mario Fragiacomo
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