I ricordi dell’esule fiumano Nevio Milinovich

Per gentile concessione di Patrizia Milinovich, figlia dell’esule fiumano Nevio (foto di apertura tratta dal sito www.lavoce.hr), sono stati pubblicati sul quotidiano della comunità italiana in Istria, Carnaro e Dalmazia La Voce del Popolo e sul sito Il mio angolo le memorie della gioventù del padre, contrassegnata dalle tragiche vicende del confine orientale italiano. Riportiamo qui in forma unitaria l’excursus che parte dagli anni del regime fascista e giunge ai Campi Profughi passando per le occupazioni nazista e titina di Fiume.

“Ho accennato qualche giorno fa a un ricordo di mio padre di cui avevo perso un po’ i particolari” – ha scritto alcuni giorni fa Patrizia Milinovich – figlia di Nevio e nipote del noto poeta fiumano Egidio, suo fratello – nel gruppo di discussione su Facebook “Un Fiume di Fiumani”. “Oggi gli ho chiesto di raccontarmelo di nuovo. Lui ha fatto di più: mi ha consegnato alcune pagine scritte da lui con ricordi e riflessioni. “Tienile tu. Magari ti potranno servire per la scuola. E comunque sia, so che le conserverai con cura”. “Così mi ha detto. Tornata a casa, ovviamente, le ho letto. Sono ricordi. Solo ricordi. Sentiti tante volte da ragazzina, ma che gli anni avevano un po’ sbiadito. Grazie papà per questo grande regalo. Pagine scritte che custodirò con amore infinito”.

A scuola continui confronti

Ho conosciuto i “Tre cavalieri dell’Apocalisse” che hanno funestato il secolo scorso: il fascismo, il nazismo e il comunismo. Ho conosciuto il loro vero volto, quello tragico e reale che non sempre la storiografia ha il coraggio di raccontare.

Sono nato nell’anno IX° dell’“era fascista” e ho vissuto i primi dodici anni della mia vita secondo i comandamenti del regime. Sono cresciuto nella retorica fascista, nell’artificiosa e per molti aspetti, tragicomica società italiana del tempo. E anche se non ero in grado di capire, allora, il mondo che mi stava intorno, percepivo il disagio della gente comune, di quella parte di popolo alla quale apparteneva la mia famiglia.

Avevo chiara la consapevolezza di essere figlio di un “povero operaio”, come allora si soleva dire, per indicare chi stava dall’altra parte e non godeva dei privilegi e dei favori che spettavano agli altri. Quelli che indossavano la camicia nera ed erano bravi a farsi notare in ogni occasione, bravi a genuflettersi e mettersi in orbace al sabato fascista, a partecipare alle immancabili ed esaltanti adunate.

Sono stato “figlio della lupa” prima, “balilla” poi. Ho marciato nel cortile della scuola ogni sabato mattina col fuciletto di legno e la faccia feroce, insieme ai miei compagni. Imparavamo a essere militareschi, ci sforzavamo ad avere piglio severo. Eravamo la futura “razza guerriera” destinata a grandi cose, grandi come il destino della nostra Patria, nata “sui colli fatali di Roma”.

Di quel tempo ricordo i quaderni di scarsa qualità che mi venivano dati gratuitamente ogni tanto, perché figlio di quel povero operaio di cui sopra. Ricordo il cucchiaio di olio di fegato di merluzzo che alle 10 di ogni mattina il bidello, con il bottiglione sotto il braccio, ci obbligava a prendere girando per le aule. Quel cucchiaio che dovevamo portare nella cartella, avvolto in un pezzo di carta bisunta che appestava quaderni ed ogni altro oggetto contenuto in essa. Ricordo gli scarponcini neri con la suola di legno (gli zoccoli del duce) e la tomaia fissata con chiodi dalla testa rotonda e sporgente, ben visibili, che venivano dati ai più bisognosi. Ricordo il rumore insopprimibile che facevano nel camminare e gli sforzi patetici che facevamo noi, nella vana illusione di non farci sentire, per non autocollocarci da soli nella categoria dei poveri.

E poi le “colonie estive”. Ambito sogno, alle quali non era possibile essere ammessi sempre, in quanto i posti erano sempre pochi per i troppo poveri che ne avrebbero avuto bisogno e diritto. Ambite, queste colonie, soprattutto per il rancio regolare, giornaliero e abbondante.

Ricordo il disagio e l’umiliazione che provavo nei continui confronti che a scuola, inevitabilmente, ero costretto a fare con i compagni appartenenti a categorie abbienti, figli di professionisti, commercianti e altro, immancabilmente gerarchetti o iscritti al PNF (partito nazionale fascista).

Confronti con il loro abbigliamento, con le loro scarpe, con i loro quaderni di prima qualità, con le loro scatole di colori Giotto da 24 o 36, con in cartella la mia da 6 pezzi. La differenza risaltava persino nella divisa che al sabato mettevamo tutti, maestri e bidelli compresi: le nostre, forniteci gratis dal regime, fatte di tessuto scadente, informi e povere d’aspetto e di sostanza. Le altre eleganti e belle esteticamente, che sicuramente non irritavano la pelle e non la facevano diventare e rimanere rossa per tutto il resto della settimana. Infine ricordo, con una punta di orgoglio, l’ostinato e fermo rifiuto di mio padre, uomo semplice, di dotarsi della “cimice” da portare all’occhiello della giacca (così veniva chiamato il distintivo degli iscritti al PNF). Il suo rifiuto mai venuto meno, nonostante le sollecitazioni di uno zio materno, viceconsole all’Ente Porto, che gli prometteva in cambio dell’iscrizione al partito, la subitanea promozione a caposquadra. Rimase fermo nel suo NO e continuò a fare il suo umile e faticoso lavoro di scaricatore.

Conoscevo il fascismo.

L’occupazione nazista

Il 25 luglio 1943 (avevo12 anni) al crollo del regime, la mia città, come del resto tutta l’Italia, veniva occupata dai tedeschi. Ricordo il clima di allora: la rigidità teutonica, la severità e la durezza delle leggi. L’intera regione (Litorale Adriatico) venne dopo poco annessa al Terzo Reich, così come l’Alto Adige. Al posto del Prefetto, sino ad allora rappresentante dello Stato, venne ad amministrare la regione un “Gaulaiter” del quale ricordo il nome che leggevo in calce ai molti avvisi affissi sui muri della città e che terminavano con le parole “D’ordine del Gaulaiter Reiner”.

La Gestapo venne affidata a un famigerato e sinistro personaggio: Sturbanfurer Lotar Globocnik, di origine austriaca, nato a Trieste e forte di un appropriato rodaggio fatto sul fronte orientale al comando delle famigerate “squadre della morte Einsatzgruppen” o nome simile.

Ricordo di quel tempo gli allarmi aerei che di giorno e soprattutto di notte ci facevano saltare dal letto, vestirci in fretta e correre nei vari rifugi antiaerei dislocati nei vari punti della città, sotto a costoni di roccia, nelle semplici cantine dei palazzi o scavati semplicemente nel sottosuolo e difesi da qualche metro di terra.

Rammento il rumore cupo delle bombe che cadevano, la vampata d’aria calda che percorreva tutta la lunghezza del rifugio e l’angosciosa domanda che faceva mia madre: “Chissà se troveremo ancora la nostra casa”. Seguiva il cessato allarme e il ritorno a casa. Nelle notti d’inverno trovavo il letto di nuovo gelato e prima ancora di essermi riscaldato e di aver ripreso il sonno, le sirene dell’allarme aereo risuonavano ancora ed eravamo costretti a ripetere il doloroso calvario di qualche ora prima. A volte l’allarme risuonava due o anche tre volte nel corso della notte.

Ricordo l’atmosfera di quel tempo, l’angoscia delle molte famiglie di ebrei che conoscevamo e che vedevamo dalle finestre di casa, essendo il casamento nel quale abitavo, situato sul confine della zona impropriamente considerata ghetto, in quanto quasi tutti i palazzi limitrofi erano abitati da famiglie ebraiche. Ricordo una ragazzina di qualche anno maggiore di me, con magnifici capelli ramati, lunghi ed ondulati. Bella, gentile ed educatissima. Ne eravamo tutti innamorati e a volte veniva a giocare con noi nel mio cortile. Ho ritrovato il suo nome, Eva Klein, non molto tempo fa, in un libro sull’Olocausto, che la indicava deceduta assieme a sua madre, zie e parenti nel lager di Aushwitz”.

Ho visto retate, gruppi di persone incolonnate e scortate da soldati tedeschi, passare per le vie della città.

Ho visto, da poca distanza, la distruzione con la dinamite della Sinagoga della mia città, opera insigne di un grande e famoso architetto ungherese, autore di opere architettoniche in varie parti d’Europa e considerate capolavori d’architettura. Portarono via su due camion tutto quello che valeva la pena di rubare. Ricordo le fiamme, il fumo, il rumore, gli schianti e le nuvole di scintille che si alzavano nell’aria.

Erano passati due anni dal 25 luglio 1943.

Conoscevo il nazismo.

Fonte: La Voce del Popolo – 27/02/2022

“Nel maggio del 1945, quando nel mondo intero, nelle strade e nelle piazze di tutte le città liberate, si festeggiava la fine della guerra e si esultava per la Liberazione, ho vissuto i momenti più tragici e dolorosi della mia adolescenza. Avevo 14 anni.

Una cappa di terrore e di angoscia era calata sulla mia italianissima città e sulla sua italianissima gente. Ho visto colonne di finanzieri, carabinieri, soldati di tutte le armi, uomini e donne, transitare laceri, sporchi, affamati e assetati, avviati verso chissà quale destino. Erano scortati da soldataglia rozza e ignorante, con la stella rossa sul berretto e armata fino ai denti che sbraitava urlando in una lingua che non conoscevo, ma sapevo essere slava. Erano le avanguardie dell’esercito di Tito che, a marce forzate, avevano raggiunto Fiume combattendo. Tito aveva spinto le sue truppe a occupare il più presto possibile quanto più territorio italiano possibile, in quanto le sue mire espansionistiche ipotizzavano il confine tra l’Italia e la sua Jugoslavia, sull’Isonzo. Voleva Trieste, Udine, Gorizia e tutta quella parte di Venezia Giulia che lui definiva impropriamente “Slavia veneta”

Ho saputo di “giudici popolari” semi-analfabeti che decidevano, a guerra finita, della vita e della morte di persone il cui unico delitto, molto spesso, era solo quello d’essere italiani. Condannati da tribunali del popolo costituiti in fretta e furia e composti da gente qualsiasi, purché di provata fede comunista.

I primi giorni dopo l’occupazione della mia città (il 2 maggio del 1945) con le liste di proscrizione già preparate, iniziava il calvario degli italiani. Arresti, deportazioni, infoibamenti. Anche nella mia famiglia si piange uno scomparso, prelevato la mattina del 4 maggio da casa e di cui non si è saputo più nulla. Probabilmente, come tanti altri infelici, avrà vissuto gli ultimi istanti della sua vita soffocato dall’angoscia sull’orlo di una foiba.

La guerra era finita, ma vivevamo ancora nella ristrettezza e nel terrore: parlare, lamentarsi era pericoloso, criticare il regime poteva costare la vita o la deportazione. Essere italiano era una colpa e molti, anche da me conosciuti, amici di mio padre, vicini di casa, ex questurini, impiegati pubblici, professionisti, insegnanti, vigili urbani, dipendenti comunali ecc., erano considerati èlite e quindi fascisti e nemici del popolo.

Il 1.mo maggio del 1948 mio padre decise di scendere al bar sotto casa, per trascorrere qualche momento di svago. Fu avvicinato da un individuo, palesemente ubriaco e conosciuto da tutti come uno sbandato, che gli infilò un garofano rosso nell’occhiello. Mio padre (che non volle mai iscriversi al partito fascista) non gradì il gesto di quell’individuo che fino a pochi giorni prima aveva scondinzolato dietro ai tedeschi, raccattando i loro avanzi e facendo il buffone, qual’era. Si tolse, quasi di nascosto il garofano e lo appoggiò sul tavolo. Questo gesto gli costò una denuncia e un mese di lavori forzati (denominati “lavoro rieducativo”) che scontò nel carcere cittadino, segando legna da ardere in coppia con un altro detenuto, muniti di un segaccio da boscaiolo di grandi dimensioni per dieci ore al giorno. Seppe dopo, da un vicino di casa, ufficiale della milizia popolare in quanto studente di scuola superiore, che il tribunale lo aveva accusato di “scarsa simpatia per il partito”. Se l’accusa fosse stata “nemico del popolo” avrebbe corso il rischio di finire in una foiba.

A settembre riaprirono le scuole. Avevo finito in modo fortunoso la terza d’avviamento commerciale e non potevo continuare la scuola in lingua croata. L’autorità cittadina escogitò, per noi italiani, una forma insolita: al mattino a scuola, al pomeriggio in fabbrica a lavorare. Fui mandato al Siluruficio Witheead, (vanto della mia città e del mio paese) al reparto meccanici, aggiustaggio, revisione motori, fonderia e torneria. Alla fine dell’anno 1947/48, non ebbi documento ufficiale. Solo un libro il cui retro di copertina riportava una semplice dichiarazione di frequenza.

Conoscevo il comunismo.”

Fonte: La Voce del Popolo – 06/03/2022

In seguito agli accordi italo-jugoslavi agli italiani venne concessa la facoltà di esercitare l’opzione per il mantenimento della cittadinanza italiana e conseguente obbligo di rimpatrio.

Il visto-partire veniva notificato 8/10 giorni prima della partenza con validità 5 giorni, pena la decadenza.

Preparammo i pochi mobili che avevamo, in quanto il giorno di carico sul vagone ferroviario degli stessi, veniva preavvisato due o tre giorni prima.

Vissi quest’ultimo periodo in una casa precaria, dormendo su un materasso steso per terra e beneficiando dell’aiuto solidale dei vicini di casa. Tutti accomunati dallo stesso destino, ma in date diverse. Ci si aiutava l’un l’altro.

Era obbligatorio presentare un dettagliato elenco di tutto quello che si possedeva, prima del carico. Elenco che veniva restituito con depennato in rosso tutto quello che non era consentito portare via: biciclette, macchine da cucire, attrezzi di qualsiasi sorte, la barca che mio padre e mio zio si erano costruiti da soli nel cortile di casa, radio, macchine fotografiche, cannocchiale ed innumerevoli altri oggetti.

Avremmo potuto venderli ma, ovviamente, essendo obbligati a farlo, venivano pagati cifre irrisorie.

Se al momento del carico, sorvegliati dalla milizia popolare con in mano l’elenco, veniva scoperto qualcosa che era stato depennato, si finiva male e la partenza diventava un miraggio.

La notte del 24 giugno 1948 (si partiva solo di notte in quanto non si doveva vedere gente che abbandonava il paradiso comunista) salimmo sul treno per Trieste, prima tappa di un esodo ancora da vivere con tutta la sua angoscia ed incertezza.

All’allora confine di Sesana il treno si fermava, salivano a bordo i poliziotti della milizia popolare e si viveva un altro momento di paura.

All’esame dei passaporti provvisori (semplici fogli con l’intestazione del Consolato Italiano, la foto e i dati anagrafici, la data di rilascio e, determinante, la data di validità apposta in calce dall’autorità consolare) alcuni non venivano restituiti al titolare che veniva fatto scendere per essere sottoposto ad una minuziosa visita. Bisognava spogliarsi di ogni indumento, che veniva esaminato . Le donne venivano perquisite da agenti donna. Tutto questo per verificare la presenza di eventuale valuta che non fosse la misera somma di 500 Jugo-lire autorizzata.

Dopo alcune ore, finalmente si ripartiva e al passaggio del confine definitivo, scoppiavano grida di gioia, pianti, singhiozzi. Finalmente eravamo nella Nostra Italia.

Conoscevo il comunismo.

Fummo alloggiati al Silos nella zona del porto di Trieste, dove rimanemmo due giorni, prima di essere inviati al Centro Smistamento di Udine: ricordo i cameroni con la distesa di brande, i divisori fatti con coperte appese ed il cibo preparato dai militari.

La nostra destinazione fu il Centro Raccolta Profughi di Servigliano in provincia di Ascoli Piceno dove rimanemmo tre anni vivendo nelle baracche che avevano già ospitato prigionieri prima, ed ebrei in attesa della deportazione, poi,

Era composto da una ventina di baracche con box di pochi metri quadrati, delimitati da semplici divisori in cartone alti m. 2,5. In ogni baracca c’erano circa 15 box.

Tutti avevamo un fornello a petrolio (Primus) sul quale cucinare il pasto giornaliero.

E’ immaginabile l’odore che si percepiva entrando nelle baracche, specialmente d’inverno.

Le baracche avevano due porte, una ad ogni estremità, un corridoio centrale ed i box alle parti.

Vissi in quel campo tre anni. Fui impiegato presso la direzione come ausiliario e il mio modesto compenso, insieme a quello di mio padre, in servizio di portineria, ci poneva in una posizione di “privilegio” rispetto agli altri, costretti a vivere con un sussidio giornaliero di 110 lire cadauno e 140 per il capofamiglia. Una famiglia di 4 persone percepiva circa 15.000 lire al mese. Lo stipendio di un impiegato al Ministero dell’Interno in servizio alla Direzione del campo era di circa 45/50 mila lire mensili.

Facemmo domanda di trasferimento e venimmo avviati al C.R.P di Chiari (Brescia)

Era pensiero costante di tutti noi ricostruirci una vita, trovare un lavoro, una casa e riprendere a vivere. A ricostruire un’esistenza che era stata stravolta, sconvolta, distrutta.

Fonte: Il mio angolo – 28/02/2022

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