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Gli italiani frenarono gli ustascia nel massacro dei serbi (Il Piccolo 22 dic)

di ROBERTO SPAZZALI

La rivista «Ventunesimo secolo», edita da Rubbettino sotto la direzione di Gaetano Quagliarello e Victor Zaslavsky, dedica il numero 16 a due temi monografici che bene rappresentano e illustrano alcuni motivi cruciali del secolo scorso: «L’Italia e il suo confine orientale» e «La primavera di Praga negli Archivi di Mosca». Gli anni Quaranta e Sessanta sono apparentemente lontani da noi e distanti tra loro, ma conservano tuttora un nodo per certi aspetti insoluto sul piano storiografico: il rapporto tra l’Italia e il vicino oriente europeo, nel caso Jugoslavia e Cecoslovacchia.

Partendo dagli studi pionieristici in materia, il più recente accesso a nuove fonti archivistiche ha permesso di gettare nuova luce sui fatti ma non sempre l’interpretazione storiografica che è seguita sembra avere tratto giovamento, quando si è trattato di rivedere se non addirittura scalzare consolidate convinzioni, spesso conseguenza di incrostazioni ideologiche e comode vulgate.

Tutti questi aspetti emergono in modo molto netto dal contributo di Marina Cattaruzza (Università di Berna) e Orietta Mostarda (Centro di Ricerche Storiche di Rovigno) «L’esodo istriano nella storiografia e nel dibattito pubblico in Italia, Slovenia e Croazia: 1991-2006» e in quello di Sanela Hodzic «Italiani brava gente? Storiografia recente dell’occupazione in Croazia durante la seconda guerra mondiale», che in un certo senso si integrano e si completano a vicenda.

Altri contributi sui rapporti italo-jugoslavi sono di Maria Teresa Giusti – che qui anticipa i contenuti di un saggio di prossima uscita – sui militari italiani prigionieri di Tito, e di Elena Aga-Rossi e Antonio Carioti intorno ai prodromi dell’eccidio di Porzus, ovvero l’uccisione in circostanze poco chiare dell’agente Michel Trent del Soe e il diniego di Romano Zoffo, comandante della II brigata Osoppo di passare sotto le dipendenze del IX Corpus. Esattamente un mese prima della strage.

È bene che se ne parli ancora anche se non si aggiungono elementi nuovi, proprio per destituire quei tentativi di comodo relativismo o di pervicace giustificazionismo atti a porre sul piatto della bilancia sempre qualcosa che risulti più pesante di quello opposto. Una delle maggiori difficoltà di comprensione la storia della Venezia Giulia nel secondo Novecento da parte della storiografia italiana è stata di non cogliere l’indissolubile legame tra lotta di liberazione e guerra civile, solcata dallo scontro ideologico in cui la prospettiva di annessione alla Jugoslavia di Tito aveva avuto un potere così dirompente da portare i comunisti giuliani su quelle posizioni, fino a spezzare l’unità della resistenza italiana, fino a favorire una nuova sovranità su gran parte della Venezia Giulia. Certamente in questi ultimi quindici anni i contributi in materia hanno colmato ritardi passati ed ovviato a certe fastidiose omissioni, hanno anche avvicinato storici italiani, sloveni e croati – anche se in verità ciò era già avvenuto negli anni Sessanta con risultati che reputo interessanti e casomai da rivalutare in occasione delle conferenze storiche italo-jugoslave di Taormina – ma solo dopo la dissoluzione del blocco sovietico e la deflagrazione della Jugoslavia.

Ora, secondo Cattaruzza e Mostarda, è possibile un bilancio su storiografia e dibattito pubblico nei rispettivi riflessi: il panorama così ricostruito non è particolarmente confortante perché la ricerca, sui rispettivi versanti ha continuato a subire il condizionamento dell’uso pubblico della storia mentre è stata riposta eccessiva fiducia dei risultati della nota commissione storica italo-slovena, che in Italia non è mai stata ufficialmente riconosciuta anche se divulgata mentre la Slovenia ne ha fatto spesso strumento per dimostrare che si era giunti a una versione condivisa. Parimenti essa non ha nemmeno promosso una storiografia plurale dell’area adriatica, in quanto, come hanno osservato le due studiose, in buona sostanza ciascuna storiografia è rimasta sulle rispettive posizioni nazionali, che anzi si sono radicate.

Così se dal canto italiano è stata istituita la Giornata del ricordo, come atto di riparazione della labile memoria nazionale, largamente condivisa dalle forze politiche, da parte slovena e croata sono riapparsi, come reazione si potrebbe aggiungere, i refrain cari alla più vetusta propaganda nazionalista, segno evidente che la classe politica non ha gradito alcune aperture individuali, alcune precise azioni tese a mettere sotto un’altra lente la Storia, e ha sentito immediatamente il bisogno di ripristinare l’antico controllo sulla produzione storica, fino a dettare alcune forme di storiografia ufficiale. Certamente non sono mancate le voci isolate, i tentativi di leggere e spiegare il Novecento nei rapporti italo-sloveno/croati al di fuori di una politica della memoria, perseguita invece a livello ufficiale in due direzioni opposte: la costruzione di una artificiale memoria condivisa oppure la blanda reciproca attribuzione di colpe e responsabilità pur riconoscendo fortemente le proprie ragioni.

L’attento esame della produzione storiografica e del livello di dibattito dimostra la difficoltà tuttora presente nel campo italiano di comprendere le vicende del confine orientale nel novero della propria storia nazionale, da parte slovena e croata di uscire dalla mitizzazione o dalla difesa apologetica di taluni miti.

Sono altrettanto interessanti i risultati ai quali giunge Senela Hodzic con un esame comparato tra storiografia serba e croata sull’immagine degli italiani durante la campagna nei Balcani: ebbene, se in Croazia gli storici tuttora non si sono discostati di molto dalle versioni offerte dalla storiografia jugoslava di regime, in Serbia la presenza italiana è stata rivalutata soprattutto quando essa risultò determinante nel frenare le persecuzioni ustascia a danno della popolazione serba, e quindi attribuire nuovi ordini di responsabilità nel campo delle atrocità. Anche in questo caso, tanto per serbi che per croati, esigenze di politica interna premono sulla gestione della memoria storica.

La rivista si completa con due contributi altrettanto significativi: l’esame di documenti inediti di Mosca sulla primavera di Praga, a cura di Viktor Zaslavsky, e un’analisi di Antonio Varsori sul convegno delle potenze occidentali a Puerto Rico (1976) dedicato alla tenuta del sistema democratico italiano davanti l’ipotesi di vittoria elettorale del Pci e del suo ingresso al governo. I due contributi ruotano intorno al ruolo dei comunisti italiani, come d’altra parte emerge anche negli articoli dedicati ai rapporti italo-jugoslavi, con la rivelazione di alcune interessanti notizie, quali la capacità dell’Urss di entrare in possesso di documenti segreti della diplomazia italiana (peraltro non ancora disponibili in Italia ma tranquillamente consultabili a Mosca in traduzione russa) e il cruciale nodo della doppia fedeltà comunista. Nei mesi successivi l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, per inciso fortemente sostenuta dal leader ungherese Kadar fino ad ottenerla dal Politburo sovietico, nel timore che l’esperienza di Dubcek non avrebbe tardato fare breccia in Ungheria, mentre la dirigenza nazionale del Pci aveva preso le distanze, i 2/3 della base militante approvava l’intervento quale difesa del primato sovietico in seno al movimento comunista internazionale. Un altro ritardo dell’Italia sulla via di una moderna democrazia. Solo quarant’anni fa.

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