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Gli eroi sbagliati dell’Isola Nuda (Corriere della Sera 08 nov)

Dunja Badnjevic racconta il dramma della famiglia e del padre stalinista che finì senza piegarsi nell’inferno di Tito
«Goli Otok isola della pace, isola di assoluta libertà – dice il dépliant turistico -. Mare straordinariamente pulito, ambiente immacolato, immerso nel silenzio». Quelle due isole paradisiache dell’alto Adriatico sono state per anni un inferno. Il regime titoista jugoslavo le aveva trasformate in due Lager, in cui finirono non solo ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la seconda guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto deportati politici e, in particolare, quei comunisti, compagni nella lotta di resistenza partigiana contro nazismo e fascismo, che, quando Tito nel 1948 ruppe con Stalin erano rimasti fedeli, per fede nell’idea universale marxista, al comunismo ortodosso e cioè – allora – a Stalin.

Finirono così a Goli Otok, l’Isola Nuda, eroici combattenti per la causa della rivoluzione mondiale d’improvviso ferocemente perseguitati dai loro stessi compagni e dal regime jugoslavo che avevano contribuito a costruire, liberando il Paese dal nazifascismo. Fra essi c’erano anche circa duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste e i Lager nazisti, che si erano battuti in Spagna contro Franco e si erano recati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a edificare il socialismo nel Paese più vicino. In quell’inferno, sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi comunisti provenienti dall’Est e posteggiati dal Pci quali scomodi testimoni della politica stalinista del partito che si voleva dimenticare.

È una storia che mi ha ossessionato per tanti anni, sulla quale ho scritto un libro, il romanzo Alla cieca; dopo essere stata a lungo rimossa e taciuta, questa vicenda è riemersa alla consapevolezza, ha dato origine a molte indagini storiche ed elaborazioni memorialistiche ed è stata resa nota soprattutto attraverso il libro di Giacomo Scotti «Goli Otok, ritorno all’isola calva» (ed. Lint), che ne documenta e illustra tutte le fasi. Anche la letteratura ha dato voce a quella tragedia, soprattutto attraverso la scrittura di testimoni sopravvissuti; fra le opere in italiano va ricordato il romanzo autobiografico Martin Muma del poeta rovignese Ligio Zanini. Ora è uscito, scritto in italiano, l’intenso, incisivo e conturbante romanzo-verità L'Isola Nuda di Dunja Badnjevic (Bollati Boringhieri), nata a Belgrado e residente da più di quarant’anni in Italia, traduttrice e promotrice nel nostro Paese di letteratura serba, bosniaca e croata, e traduttrice di autori italiani in serbo, esempio di un’identità culturale che, pur restando fedele alle proprie origini, si trasforma e si arricchisce acquisendo, attraverso l’avventura della lingua, una valenza intellettuale e umana in più.

Lo specchio Adriatico, come dice un libro del poeta e saggista croato Tonko Maroevic, è stato fecondo di questi rimbalzi culturali; un altro esempio è Ljiljana Avirovic, saggista e grande traduttrice dall’italiano in croato ma anche dal croato o dal russo in italiano. L'Isola Nuda è essenzialmente la storia del padre dell’autrice, Ešref Badnjevic, comunista internazionalista e partigiano, incrollabilmente fedele agli ideali universalistici, che finisce a Goli Otok e poi in un altro Lager all’interno della Jugoslavia. Attraverso la storia del suo calvario e della diritta fierezza con cui egli lo ha affrontato, emergono, con asciutta poesia che rende più intensa una nobile e indomita sofferenza, la storia di una famiglia, in estreme difficoltà sopportate con fermezza, e la storia di tutto un Paese, che inizia a rovinare calpestando i valori che lo hanno costruito e che esso stesso mina credendo di farlo per difendersi. Lei – le dico incontrandola a Roma – ha scritto un libro forte, «vero» umanamente, storicamente e personalmente. Una testimonianza personale che diventa romanzo. Come si è posta rispetto a tale rapporto tra la bruciante verità e quel tanto di finzione necessaria per articolarla in un racconto che ha pure un suo notevole spessore letterario? È stato esistenzialmente difficile?

Badnjevic – Non è stato difficile perché è un documento-verità, non c’è alcuna finzione. Era un po’ come un’auto-analisi e una catarsi attraverso tutto ciò che abbiamo vissuto io, mio padre e il mio Paese. Ho perso un padre nel momento in cui ne avevo più bisogno, prima, e ho perso una patria che amavo, quasi visceralmente, dopo. Da qui il mio neologismo «apolitudine»: sentire ad un tratto cancellato tutto un vissuto e avere solo la memoria per ricordare quel che gli altri cercavano di far sparire nel nulla. Affrontare un mondo in cui le vittime di ieri oggi non si riconoscono come tali, in cui i nomi delle strade e delle città sono cambiati. Che cosa significa ora aver combattuto per la patria e per un mondo migliore, se nella storia ufficiale quello non era il mondo migliore e nemmeno la patria era più quella? La realtà dei Balcani ha superato di gran lunga ogni possibile previsione.

Magris – Ciò che mi ha sempre commosso, in questa terribile vicenda, è il contrasto fra l’eroismo morale di questi uomini come suo padre e altri, pronti a sacrificare se stessi alla causa dell’umanità, e il fatto che essi si siano battuti e sacrificati (e forse pronti a sacrificare pure altri) in nome di Stalin, che, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in una Isola Nuda. Lei come sente questo contrasto? A parte l’amore personale per suo padre e l’oggettiva ammirazione per la sua dirittura, lo vede anche come in parte oggettivamente colpevole o almeno in errore?

Badnjevic – Colpevole no, ha agito in totale buona fede, facendo male solo a se stesso e alla sua famiglia. Bisogna rapportarsi a quegli anni quando i comunisti di tutto il mondo credevano che Stalin dei gulag non sapesse niente, che le responsabilità fossero degli Jagoda, degli Ezov, dei Beria. Mio padre non è mai stato in Russia. Credeva, sbagliando, nell’internazionalismo che necessitava, almeno all’inizio, di uno Stato guida, in un mondo in cui tutti davano secondo le proprie capacità e ricevevano secondo i bisogni. Se il socialismo avesse vinto in Germania, diceva, tutto sarebbe stato molto diverso. L’Unione sovietica era un Paese troppo povero, arretrato e grande. Anche se in molti Paesi dell’Est, Russia compresa, ci sono ancora oggi coloro che credono di aver pagato un prezzo troppo alto per la fine del socialismo reale.

Magris – Negli anni recenti c’è stato un intenso dibattito su questa storia che si voleva far dimenticare; studi storici, saggi, testimonianze, opere letterarie. C’è stato qualche testo o qualche autore importante per l’ispirazione di questo libro

Badnjevic – Sono usciti tanti saggi, ovviamente dopo la morte di Tito. Un testo letterario fu scritto ancora negli anni 70 da Dragoslav Mihajlovic, Quando fiorivano le zucche, ma ne fu vietata la diffusione. Il romanzo più fortunato sull’argomento fu Tren 2 di Antonije Isakovic. Mihajlovic era tra i più giovani «ospiti» dell’Isola e ha pubblicato due grossi volumi di ricordi. Ci sono stati qualche tentativo di riabilitazione dei detenuti, qualche convegno e incontro ufficiale. A uno di questi ho preso parte: era veramente toccante vedere i vecchi superstiti rincontrarsi e ricordare. Poco dopo è arrivata la fine della Jugoslavia travolgendo tutto come un uragano. Che cosa poteva significare il destino di poche decine di migliaia di persone rispetto agli orrori di una guerra che si spalancavano davanti al Paese?

Magris – Questa terribile storia è una tragedia del movimento rivoluzionario mondiale, un tramonto – temporaneo o definitivo? – del sole dell’avvenire ed è anche una tragedia jugoslava, quasi un lontano preludio della dissoluzione di quel Paese. Lei sente un nesso, sia pur lontano e simbolico? Come ha vissuto e come vive lei il tracollo del socialismo jugoslavo, la dissoluzione della Jugoslavia e la deformazione o cancellazione della sua memoria storica?

Badnjevic – Ogni volta che tornavo mi sentivo, come dicevano le mie amiche, una rana buttata nell’acqua bollente, stupita ed esterrefatta. Loro invece erano state immerse in acqua fredda e portate all’ebollizione lentamente. Credo che il declino inarrestabile del socialismo inizi nel 1956 quando le incertezze del gruppo dirigente sovietico e la mediocrità della classe dirigente delle democrazie popolari impedirono il necessario e radicale mutamento e critica della teoria e della pratica politica del socialismo e il suo adeguamento ai tempi nuovi. Se si fossero date risposte serie e sincere ai tanti «perché» del ’56, forse oggi non ci troveremmo in un mondo in cui non invidio la giovinezza delle mie figlie e dei miei nipoti. Io, figlia di un vecchio comunista, credevo «nel sol dell’avvenire». In quei principi elementari di solidarietà umana e di internazionalismo che avevano caratterizzato gli albori del socialismo. Lei nel suo Utopia e disincanto ha scritto: «Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo».

conversazione tra Claudio Magris e Dunja Badnjevic

 

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