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Gli americani alla scoperta del confine che non c’è più (Il Piccolo 18 set)

di GUIDO BARELLA

TRIESTE Un viaggio che cancella una certezza consolidata, quella, molto americana e altrettanto poco europea, di considerare i confini «come linee immutabili che dividono luoghi dalle singole identità precise».

Carl Hoffman, facendosi accompagnare dalle immagini scattate dal fotografo Aaron Huey, ha raccontato la sua esperienza di viaggiatore nelle nostre terre sul numero di settembre di Traveler – National Geographic, la rivista di viaggi più diffusa in tutti gli Stati Uniti, immancabile anche nelle lounge degli aeroporti Usa oltre che a bordo ad esempio degli aerei di numerose compagnie nei voli transoceanici.

E così confessa, Hoffman, come alla fine del suo viaggio – non a caso pubblicato sotto il titolo ”Europe’s borderland” – abbia scoperto come «la mia nozione americana di un Paese e della sua identità definita da confini immutabili fosse l’eccezione ». Perché la regola, almeno qua, è altra.

È, ad esempio piazza della Transalpina a Gorizia, la cui immagine occupa ben mezza pagina sul prestigioso mensile. «Piazza della Transalpina – scrive Hoffman – è il posto perfetto per vivere l’esperienza del paradosso dei confini internazionali. Dove sei e chi sei dipende da dove ti fermi in questa piazza, uno spiazzo in asfalto presidiato sul lato italiano da un albergo ristorante e sul lato sloveno dalla stazione di Nova Gorica, classico edificio austroungarico. Un secondo ero in Italia, un passo dopo ero in Slovenia. Gli uccelli, l’aria, la vista, gli alberi sono gli stessi».

Da Gorizia all’alta valle dell’Isonzo ed ecco il Mangart: «Sono in Slovenia – scrive Hoffman -, le valli dietro di me sono in Italia e l’Austria è vicina. La gente parla indifferentemente le tre lingue anche se siamo in nazioni differenti, non posso dire quando un Paese finisce e l’altro inizia. Negli Stati Uniti – confessa – tendiamo a pensare ai confini come linee immutabili che dividono luoghi dalle singole identità precise ma qui al confine tra Slovenia e Italia ho avuto un’esperienza molto differente». Ecco allora l’incontro con Erik, gestore di un rifugio che, servendogli una saporita zuppa di salsiccia, gli spiega: «Ho un nome tedesco, vivo la vita come un italiano ma mi sento sloveno». Oppure la visita al piccolo cimitero di Fusine: «Proprio i cimiteri, con le tombe che riportano cognomi italiani, sloveni e tedeschi l’uno a fianco all’altro, spiegano i confini meglio di una carta geografica». E ancora la confessione della sua guida incontrata a Plezzo: «Noi sloveni siamo precisi come gli austriaci ma amiamo e facciamo affari come gli italiani ».

Hoffman, lasciato il confine italo-sloveno-austriaco nella zona del Dreiländereck, va quindi alla scoperta dei confini della Slovenia («un laboratorio ideale», scrive) – così ricchi di contaminazioni etnico linguistiche – prima con l’Austria, poi con l’Ungheria e quindi con la Croazia, prima di approdare infine a Trieste.

«E a Trieste – confessa – mi sono sentito disorientato: chi tu sia, in questi posti, dipende dalla tua identità etnica, dalla tua lingua più che da una linea su una mappa e da chi quella linea l’ha tracciata. Il mare – conclude – è un confine tangibile: eccettuato questo non c’è nessun confine, sono in una zona libera, connessa con il mondo».

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