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Giù le mani da Pannunzio (Libero 23 lug)

di Egidio Sterpa

Faranno cent’anni l’anno venturo dalla nascita di Mario Pannunzio, il mitico direttore de “Il Mondo”, di cui Indro Montanelli, che negli anni Sessanta lo propose ai Crespi come direttore del Corriere della Sera, disse, tanta era la stima che ne aveva: «Pannunzio era unico. Mi sarebbe piaciuto esserne l’erede». Che tipo fosse Pannunzio lo dice come reagì quando seppe della candidatura alla direzione del giornale di via Solferino: «Non ti è venuto il sospetto», disse a Indro, «che non avrei mai abbandonato “Il Mondo”, e che solo pensare che lo facessi era per me un’offesa?». Erano anni quelli in cui il giornalismo italiano aveva uomini straordinari. Tre firme di fuoriclasse su tutti: Pannunzio, Montanelli, Longanesi, una terna davvero eccezionale. Dei giornalisti rimane in genere poca memoria storica, ma dei tre nostri titani si parlerà a lungo. Pannunzio e Montanelli erano coetanei, il primo del 1910, Indro del 1909. Leo Longanesi, che era del 1905, morì nel 1957 a soli 52 anni.

Ha scritto Indro di Pannunzio: «Nella mia amicizia per lui c’era una sfumatura di reverenza, un sentimento al quale sono piuttosto allergico. “Il Mondo” era l’unico rotocalco che Longanesi, dei rotocalchi padre e maestro, abbia mai invidiato per l’importanza che ha avuto e l’influenza che ha esercitato sull’intellighenzia italiana».

Ma Pannunzio, tanto citato, quanti lettori sanno che cosa è stato per il giornalismo italiano? Scrisse poco, in verità, di importante ha lasciato solo un bel saggio su Tocqueville (Le passioni di Tocqueville) pubblicato nel 1942. Come direttore fu davvero incomparabile. Del “Risorgimento Liberale”, da lui fondato e diretto, fece il più bel quotidiano degli anni Quaranta: pochi lettori, molta autorevolezza, tanta cultura.

Sui giornali che dirigeva scriveva brevi note, corsivi, editoriali, ma il suo ingegno giornalistico, il gusto e l’eleganza professionali che gli erano naturali sapeva trasmetterli ai collaboratori, di cui, si può dire, era quasi regista etico, “direttore di coscienza” come lo definì Arrigo Benedetti, suo amico e collega sin dai tempi dell’“Omnibus” di Longanesi.

Non c’è precedente nella stampa italiana di quel che egli seppe fare di un settimanale come “Il Mondo”. Fu Rosario Romeo, lo storico di Cavour, a dire: «Attorno a Mario Pannunzio si riunì un gruppo di intellettuali tra i più impegnati moralmente e politicamente che conosca la storia d’Italia». Sì, ci furono i casi de “La Voce” di Prezzolini e dell’“Omnibus” di Longanesi, ma sul Mondo scrissero, e non casualmente, per propria scelta, personaggi di grande spessore culturale, firme affermate in Europa e nel mondo come Croce, Einaudi, Salvemini, che a Pannunzio guardavano con rispetto. Era un intellettuale colto, del resto, e il rapporto di uomini di tanto valore con lui era assai diverso, di livello ben più alto, di quello che c’è in genere tra intellettuali di rango e un direttore. Furono davvero grandi firme quelle che Pannunzio portò al Mondo. Ne ricorderemo alcune: Mario Soldati, Leo Valiani, Vittorio Gorresio, Giovanni Russo, Alberto Ronchey, Vittorio de Caprariis, Ennio Flaiano, Corrado Alvaro, Giovanni Comisso, Ignazio Silone, Carlo Laurenzi. E fermiamoci qui; c’è già, come si vede, un bel po’ della storia della cultura e del giornalismo del Novecento. S’è scritto giustamente che “Il Mondo” è entrato nella storia della intellighenzia italiana.

Sono di una generazione diversa, posteriore, a quella di Montanelli, Pannunzio, Longanesi e di molti altri collaboratori de “Il Mondo”. Quando il settimanale di Pannunzio usciva (1949-1966, diciotto anni) ero al Tempo di Roma, che aveva sede nel Palazzo Wedekind di piazza Colonna. “Il Mondo” ebbe due sedi, in Campo Marzio e in via di Colonna Antonina, distanti pochi passi dal Tempo. Vivevo e lavoravo, dunque, in un mondo diverso da quello di Pannunzio, tuttavia del suo settimanale ammiravo l’eleganza, lo spirito critico, pur a volte non condividendone talune tesi.

Avevo un collega e amico caro, Piero Accolti, che frequentava il gruppo pannunziano. Me ne parlava spesso, qualche volta per ripicca polemizzavano. Altro collega formatosi alla scuola del Mondo fu il bravissimo Carlo Laurenzi, scrittore lontano da ogni retorica, penna magnifica, scomparso troppo presto, al quale toccò – eravamo insieme al Corriere – di scrivere il necrologio il 10 febbraio 1968, quando Pannunzio morì. Insomma, pur non avendolo mai incontrato, di questo formidabile direttore seppi sempre qualcosa da amici che lo conoscevano e lo frequentavano.

Mi è capitato nel giugno scorso d’essere ospite, per presentare un mio libro, del Centro Pannunzio di Torino, in fondo a via Maria Vittoria, a fianco dell’Università. Ho avuto il piacere di conoscere l’animatore del Centro, il professor Pier Franco Quaglieni, che generosamente si dedica da quasi quarant’anni a tener viva la memoria di Pannunzio. Sul mitico direttore de “Il Mondo” non ci sono scritti di valore come quelli di Quaglieni. Fu Arrigo Olivetti, che con Nicolò Carandini fu editore de “Il Mondo”, a creare il Centro, e ne affidò la gestione a Quaglieni, di cui Leone Cattani, liberale storico, scrisse: «Arrigo mi parlava sempre con stima e con fiducia di Quaglieni: sapeva conoscere gli onesti». Una carta d’identità perfetta, a cui va aggiunta la profonda cultura liberale. Del Centro fu presidente per anni Mario Soldati, a cui è succeduto Camillo Olivetti, vero gentiluomo, fermo difensore dell’iniziativa del padre. Alla presidenza onoraria è stata fino alla morte, avvenuta neppure un mese fa a 91 anni, Alda Croce, la figlia del filosofo, donna colta con una profonda formazione umanistica, grande collaboratrice del padre.

In questi quarant’anni il Centro Pannunzio ha insignito del premio dedicato al direttore de “Il Mondo” almeno una ventina di personaggi della cultura italiana, tra i quali Spadolini, Alessandro Galante Garrone, Nicola Abbagnano, Bocca, Montanelli, Magris, Ronchey, Sergio Romano, Bettiza, e tra gli ultimi Forattini, Feltri, Pansa. A Quaglieni si deve tutta questa preziosa attività culturale. Liberale «puro e duro», com’egli ama definirsi, non si stanca di sottolineare l’impegno politico liberale di Pannunzio, che non fece mai concessioni ai comunisti negli anni “sovietici”, denunciò da buon patriota, il dramma degli istriani, dalmati e dei prigionieri italiani in Russia, non gradì mai posizioni e compromessi. Nel 1966 nell’editoriale di commiato, quando “Il Mondo” chiuse, bollò con risolutezza – e fu il suo ultimo scritto – «la chiusura irrimediabile del mondo comunista alle sollecitazioni della libertà» e definì opportunismo «la fuga verso il comunismo di tanti intellettuali».

Il che sottrae senza possibilità di equivoci Pannunzio alla speculazione di certa sinistra e di taluni post-azionisti che lo vorrebbero tra i loro numi tutelari e maestri spirituali.

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