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Gilas: mio padre, l’uomo che si oppose a Tito (Il Piccolo 20 mag)

di ELISABETTA D’ERME

Nell'ambito della manifestazione èStoria, domenica 23 maggio a Gorizia (alle 9.30 nella Tenda Erodoto) si terrà un incontro tra Aleksa Gilas (o Djilas nella grafia meno usata sulla stampa), Demetrio Volcic e Sergio Canciani sul tema “Rivoluzione e libertà al tempo di Tito. La vicenda umana e politica di Milovan Gilas”. Omaggio a Milovan Gilas (1911-1995), intellettuale, politico, partigiano e militante comunista jugoslavo che, da braccio destro di Tito, divenne un lucido osservatore dei lati oscuri del socialismo reale, dalla mancanza di democrazia all'affermazione di una dorata oligarchia di burocrati di partito.

Le scelte di Milovan Gilas segnano tappe salienti della storia dei Balcani: lo smarcamento da Stalin e dall'Urss, la critica a Tito, la guerra di liberazione in Montenegro, la prigionia per l'opposizione al partito, il viaggio negli Usa e il pronostico della dissoluzione della federazione jugoslava.

A testimoniare questa vita eccezionale èStoria ha chiamato il figlio, Aleksa Gilas, scrittore, giornalista e storico. Nato a Belgrado nel 1953, ha studiato filosofia a Vienna e Graz, e scienze politiche e sociali alla London School of Economics. Il suo impegno a favore di dissidenti e perseguitati politici, tra il 1980 e il 1990, gli è costato 11 anni di esilio trascorsi in Inghilterra e negli Usa. «Nel gennaio dell'80 mi trasferii a Londra per lavorare al mio dottorato – ricorda Aleksa Gilas. – Iniziai a pubblicare articoli critici verso il regime sulla storia e la politica della Jugoslavia sul mensile “Our World”, vicino agli esuli jugoslavi, che raccoglieva documenti di dissidenti da Belgrado».

Aleksa Gilas riuscì così a diffondere in patria libri di autori messi al bando dal regime, come pure i saggi di suo padre già apparsi in America, Germania e Italia, ma che non potevano essere letti nella sua lingua. Fu tra i promotori di una campagna contro la pena capitale, le condizioni delle prigioni e gli abusi negli ospedali psichiatrici, dove venivano rinchiusi anche i prigionieri politici. «La polizia politica iniziò allora ad attaccarmi e ricevetti minacce di morte dai servizi segreti – racconta ancora Aleksa. – Alla scadenza del mio passaporto chiesi alla Gran Bretagna asilo politico, che otteni assieme a un lasciapassare che mi permetteva di viaggiare, ma non divenni mai cittadino britannico».

Una vita improntata dalla statura e dall'esempio morale del padre, Milovan Gilas, al quale Aleksa fu sempre vicino: «Mio padre fu arrestato per la prima volta nel novembre del 1956; all'epoca avevo tre anni e mezzo. Passò 9 anni in prigione. Con mia madre lo andavamo a trovare e gli scrivevamo lettere. E' interessante studiare il rapporto dei bambini con la politica. Ne capiscono l'essenza perché hanno uno sviluppato senso del pericolo e del potere. Poco prima che mio padre venisse arrestato usavo dirgli “Come puoi lottare contro Tito? Lui ha l'esercito e la polizia e tu hai solo mia madre e me!”. Questo era realismo politico, ma mio padre in quanto dissidente non lo poteva accettare. Pensava che le parole potessero essere più forti della polizia e dell'esercito».

La madre spiegava al piccolo Aleksa che il papà era in prigione perché aveva scritto che voleva più libertà, o perché aveva appoggiato la rivolta dell'Ungheria. Quando nel 1957 Milovan Gilas pubblicò “La nuova classe” venne di nuovo arrestato e sarebbe rimasto in galera a lungo se nel 1966 il capo dei servizi segreti, Aleksandar Rankovic, non fosse caduto in disgrazia a seguito dell'accusa di aver tramato contro Tito. Alla fine Rankovic andò in pensione e qualcuno si chiese perché Gilas dovesse restare in prigione. Era iniziata una fase di liberalizzazione che durò fino a quando Tito non la interruppe nel 1972.

Ma quale Jugoslavia sognava Milovan Gilas? Immaginava un sistema scolastico indipendente dal partito e università dove si potessero dibattere le proprie tesi. Immaginava autonomia legislativa, poter criticare i vertici del partito, e meno privilegi per i burocrati. «Mio padre non era per l'egualitarismo, – sottolinea Aleksa, – ma era contrario allo stile di vita arrogante tipico della nomenclatura». Quando nel 1952 a Zagabria si tenne il VI Congresso del partito, su suggerimento di Milovan Gilas il Partito Comunista di Jugoslavia (Kpj) cambiò nome in Lega dei Comunisti di Jugoslavia (Skj), una lega che non doveva governare ma guidare la società. Eppure i timori che seguirono la morte Stalin nel 1953 segnarono l'inizio di una frattura irreparabile tra Tito e Gilas, che un anno dopo si dimise da tutti i suoi incarichi, abbandonò il partito e iniziò a denunciare pubblicamente il sistema. «Era un socialista democratico – dichiara il figlio. – Pensava che andassero preservate le conquiste della rivoluzione comunis
ta come l'educazione e l'assistenza sanitaria gratuita, o le leggi a difesa dei diritti dei lavoratori, ma allo stesso momento auspicava un'economia di mercato gestita da manager competenti e non da burocrati di partito».

Dal 1993 Aleksa Gilas è tornato a vivere a Belgrado. Tra le sue ultime pubblicazioni “From Exile” (Belgrado 2009) un'ampia raccolta di saggi, studi e documenti. Dal suo osservatorio privilegiato Aleksa Gilas è la persona che meglio di chiunque altro può rispondere alle questioni relative al disfacimento della Jugoslavia, alla democrazia serba, al problema del Kosovo. Per Gilas tre sono i motivi che hanno portato allo sfaldamento della federazione: l'incapacità e lo sciovinismo dei leader locali, l'irresponsabile gestione dell'Occidente della crisi balcanica e l'eredità dei conti interni in sospeso dalla Seconda guerra mondiale.

Sul tema democrazia sottolinea: «Abbiamo libertà fondamentali come i diritti civili, la libertà di associazione, ma ci sono altri problemi come le riforme della giustizia, o il controllo dei media. E poi da noi a ogni tornata elettorale le potenze occidentali fanno pressione per la creazione di governi di coalizione e ciò non dovrebbe avvenire in una democrazia. Quindi i nostri problemi sono simili a quelli di altri Paesi europei: il potere in mano a multinazionali dei media, la giustizia influenzata dai politici, l'ingerenza di altri paesi sulla politica nazionale. Ma quanto tutto ciò ha a che fare col dover rinunciare al Kosovo? – si chiede Aleksa Gilas. – In Serbia oggi la maggioranza è contro un possibile riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo. L'arrivo della Nato ha portato a esiti inaspettati. Se vi fosse un governo democratico, se le minoranze fossero trattate con giustizia, se non venissero distrutti i nostri monumenti, l'attitudine dei serbi nei confronti dei kosovari sarebbe diversa. La perdita del Kosovo è una tragedia per la Serbia. La sua anima religiosa è lì, con tutti suoi antichi monasteri. Lì è il cuore dello Stato dove nel Medioevo la Serbia raggiunse il suo apogeo. È come se l'Italia perdesse la Toscana. Ma se da una parte è una tragedia dall'altra è una benedizione perché il Kosovo è sottosviluppato, povero e sovrappopolato. In Serbia ci saranno pure gang criminali, ma in Kosovo sono al potere! L'avallo alla creazione di uno stato non democratico da parte dei governi occidentali ci punisce e umilia ed è un terribile messaggio per tutto il mondo».

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