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”Foibe. L’ultimo testimone” (Il Foglio 12 mar)

"Foibe. L’ultimo testimone" di Graziano Udovisi
135 pp., Aliberti, 12 euro
 
La spietata ricostruzione dell’infoibamento costituisce il nucleo centrale del racconto arricchito, soprattutto nella parte iniziale e finale, da riferimenti storici e geografici che permettono di dare uno sfondo decisivo alla quasi dimenticata tragedia delle foibe. La testimonianza di Graziano Udovisi è quella di un vecchio di ottantacinque anni che riporta alla mente un’esperienza tragica che lo ha segnato e cambiato profondamente. E’ la parola di uno degli ultimi testimoni. Udovisi riflette innanzitutto su come l’esercito italiano in Istria sia stato abbandonato a se stesso dopo la dichiarazione di non belligeranza dello stato italiano nel settembre 1943. Quest’aspetto introduce un tema che fa da sostrato al racconto e che suscita amarezza: la disparità di atteggiamento nei confronti di chi era nato nel Regno d’Italia rispetto agli istriani. I militari che tentavano la fuga verso Trieste per far ritorno a casa venivano obbligati a passare dalla parte dei partigiani comunisti e l’aver aderito alla Milizia per la difesa territoriale contro le truppe di Tito è stato considerato un gesto da fascisti e da traditori. Drammatica la parte dedicata alle torture inflitte prima di essere gettato nella foiba fino al momento in cui riesce, stremato, a risalire dalla cavità. E’ lucido e tremendo l’impatto che solo la parola diretta di chi ha vissuto simili bestialità è ancora in grado di far provare. Oltre ogni malessere fisico che annulla addirittura il dolore, c’è però la speranza e un’invocazione semplice alla Madonna pronunciata nell’istante prima di essere gettato nella fossa. Questo racconto è arricchito dall’inserimento di un altro racconto, tipograficamente evidenziato, scritto in pochi giorni dall’autore stesso nel 1987 e inviato all’amico Giulio Bedeschi. L’ultimo sopravvissuto non può tralasciare alcun aspetto, non deve permettere all’oblio di edulcorare qualcosa che la vivezza del ricordo ha mantenuto, giustamente, spietato. Oltre la metà del racconto, qualche fotografia fa da corollario a ciò che la potenza della parola era già riuscita a evocare. La seconda parte della testimonianza è dedicata ai due anni di carcere che ha dovuto scontare dopo essere stato denunciato per collaborazionismo. Qui i toni si fanno molto più distesi, quasi a voler significare che la galera era niente rispetto a quello che aveva passato. La conclusione è affidata alla voce del poeta Mario Varea che ripercorre il calvario del protagonista riflettendo su quanto fosse forte in lui, nato in Istria, il valore della patria Italia.

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