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Esuli sul veliero della memoria (Avvenire 25 lug)

Reportage di Lucia Bellaspiga

In Dalmazia e Istria per rivedere le terre da cui dovettero fuggire . «Ecco
la mia casa, la scuola», così le pietre di Pola tornano vive . Il viaggio a
ritroso di un gruppo di profughi istriani e dalmati strappati dalle proprie
radici oltre 50 anni fa e che adesso tornano a costeggiare i territori della
loro infanzia . I ricordi delle violenze subite, della povertà patita e il
dolore dell'aver perso i propri riferimenti trasfigurano in una
pacificazione favorita dai nuovi assetti geo-politici

Fermi per ore sul ponte di una nave che li portava verso un futuro ignoto,
sessant'anni fa avevano guardato a lungo le loro città, la casa che
rimpiccioliva, i campanili, la scuola fino a quel giorno piena delle loro
voci e di tante speranze, i pa­lazzi affacciati sul mare.

Oggi, sessant'anni dopo, il veliero su cui viaggiano va a ritroso, torna a
Pola, Zara, Spalato, giù giù lungo le coste della Dalmazia: a ritroso nello
spazio e soprattutto nel tempo. Ora le case si avvicinano, così come i
campanili bianchi, e i Leoni di San Marco scolpiti sulle facciate. Anche
quella scuola di allora si riempie di nuovo di voci, e in fondo non è
illusione: sulla nave degli esuli istriani, tornati a scoprire le loro
radici, succede a volte che il filo spezzato della storia si riannodi e i
destini lasciati in sospeso, congelati dall'esodo, riprendano il loro corso.
« Ti xe la Carmen? », « E ti? Ti xe Enrico? Ma ti te ricordi che ierimo
all'asilo insieme? »…

Sono una trentina a bordo del 'Barbara', molti di Pola, altri nati sulle
isole, qualcuno a Zara. Incrociano imbarcazioni cariche di turisti appagati
dal mare e dal sole di Croazia. Ma loro no, non sono turisti: il veliero
scivola silenzioso da un passato che si fa presente, e ogni pietra d'Istria
e Dalmazia a loro parla una lingua di casa, che nessun altro potrebbe
capire. Succede quando la nave sfiora Lagosta, un tempo italiana: «Ecco la
scuola… l'ha costruita mio padre. È uno dei pochi ricordi 'materiali' che
mi restano », dice Mia Valdemarin, classe 1928. Infatti del suo viaggio da
esu­le ha rimosso assolutamente tutto: «Avevo 18 anni ma lo choc fu enorme.
I ricordi riprendono da quando la mia famiglia arrivò in Alto Adige: si
ricominciava da zero, tutto era perduto ». I beni, la casa, ma soprattut­to
«le persone»: «Quando un intero popolo si disperde – spiega – perdi il
contatto con i tuoi compagni di scuola, la donnetta del mercato, il vicino
di casa, il quartiere… È peggio di un terremoto, in macerie non vanno i
muri ma tutta la tua vita». Suo padre Gigi, imprenditore edile, nel maggio
del '45, quando i partigiani jugoslavi di Tito rastrellarono migliaia di
italiani, fu catturato in casa: «Vennero due ragazzi, la divisa di stracci,
la stella rossa sul berretto, il mitra. Quella stessa notte furono
ar­restati tutti coloro che avevano imprese e negozi, il giorno dopo
cercarono i medici… ». Della sua casa resta in piedi poco. «Quella era la
mia camera da letto… ». Oggi è l'ingresso a un grande magazzino.

«Noi finimmo a Gorizia. Niente casa – racconta Maria Laura Pussini, nata
nell'isola di Cherso nel 1932 -. Un fattorino della banca dove papà lavorava
ci diede una camera con cucina, il gabinetto sul pianerottolo era in comune
con le altre famiglie. Mia madre non usciva mai: 'Dove vado, che non mi
saluta nessuno qui?'… Ecco, questo è l'esule ». Oggi sul veliero parla
perché Fabio, suo figlio, ascolti e sappia. Negli occhi anche lei ha il
molo, la bora gelida, papà e mamma sul ponte «a guardare l'Istria fino a
quando non è sparita». Poi il viaggio che prosegue in treno: finestrini
rotti, «papà che mi prende i piedi e se li mette sotto il cappotto». Ai
cu­gini, 21 e 23 anni, va molto peggio: «Furono presi dai titini, lui tenuto
fermo mentre violentavano e uccidevano la sorella. Dopo due mesi morì anche
lui».

I primi che scapparono riuscirono a prenotare un vagone in cui caricare ciò
che potevano, mobili, piat­ti, vestiti. Gli altri fecero cataste sul molo,
nell'attesa le coprirono di teloni, che la neve a sua volta coprì… Altri
ancora lasciarono ogni cosa a chi avrebbe oc­cupato la loro casa. «Odio? No,
da quando c'è la Croazia le cose stanno molto migliorando – assicura
Salvatore Palermo, nato a Pola nel 1930, che con la moglie Graziella ha
ideato il viaggio degli esuli – mentre sotto la Jugoslavia tutto apparteneva
allo Stato e il degrado era totale. Oggi noi rispettiamo i croati e loro
rispettano noi…

La storia va avanti, io so che mi trovo nel­la mia città e che oggi ci posso
venire in pace». Il suo paradiso personale è lo Scoglio di Sant'Andrea,
«dove vivevamo per­ché papà, siciliano, era custode di un deposito militare
della Marina. I miei ricordi? Mare, sole, pineta, vento, ci­cale, profumi. E
un bambino felice, che quando non c'era la scuola pescava dalle 5 del
mattino fino a sera». Un so­gno spezzato di colpo: «Il 7 febbraio del '47 ci
imbar­cammo sulla nave 'Toscana', era pomeriggio. La notte aspettammo nelle
stive, mam­ma non faceva che piangere, la mattina tutti sul ponte a guardare
Pola che lentamente sfumava per sempre». Destinazione Brindisi, ar­senale:
«Grazie alla Marina noi ci evitammo anni di campi profughi: ci die­dero una
camera, la cucina era a turno tra tutte le famiglie».

Aveva solo 9 mesi Uccio De Caro quando il 'Toscana', in uno dei suoi viaggi
ca­richi di disperazione, lo depositò in braccio a sua madre sull'altra
sponda dell'Adriatico. «Oggi sono su questo veliero perché io non ho
ricordi, ovviamente. Qui spero di incontrare qualcuno che possa colmare il
mio vuoto, che mi rac­conti, anche se ognuno poi ha la sua storia
perso­nale… ». La sua approdò alla caserma 'Ugo Betti' di La Spezia,
insieme ad altre 360 famiglie, «1. 300 per­sone stipate negli stanzoni
militari, con pareti che non arrivavano al soffitto e tutti che sentivano
tut­to. Papà faceva lavoretti di falegnameria per la co­munità: doveva tirar
su due soldi per farci mangia­re. Vivemmo così per nove anni, ma quanto mi
sem­bra felice la mia infanzia in quella piccola Pola provvisoria! ».
Cresciuto in una 'città fantasma' di istriani profughi, Uccio, figlio di
siciliani e oggi torinese, parla in perfetto dialetto polesano: «Non so
neanch'io spiegare com'è possibile, se ne stupiscono tutti». For­se è che
l'anima parla una lingua che ha radici profonde. Molto più della memoria.

La storia
Dal 1945 il genocidio la fuga precipitosa e la vita in baracche

Il genocidio dei giuliano-dalmati in Istria, Fiume e Dalmazia avviene a più
riprese, a partire soprattutto dalla fine della seconda guerra mondiale, già
in tempo di pace: nel maggio del 1945, in particolare, mentre il resto
d'Italia, liberata dagli anglo­americani, festeggia la fine dal
nazi­fascismo e pone le basi della rinascita democratica, un'altra parte
d'Italia (Istria, Fiume, Dalmazia) è invece 'liberata' dai partigiani di
Tito: l'ordine del maresciallo è deitalianizzare quelle regioni e per gli
abitanti inizia il calvario delle foibe, dei campi di concentramento
jugoslavi, delle deportazioni e – in Dalmazia, dove le foibe non esistono –
degli annegamenti di massa. Per i giuliano-dalmati non resta che l'esodo: in
350mila scappano verso le altre regioni italiane, lasciando a Pola, Fiume,
Zara ogni loro avere, la casa, il negozio, i terreni, le tombe di famiglia.
Ma spesso, dove arrivano stremati e senza nulla, sono cacciati con l'accusa
di essere fascisti (in quanto in fuga da un regime comunista). Si
allestiscono in tutta Italia 109 campi di raccolta: baracche prive di
servizi, ricavate in caserme o scuole dismesse, dove le famiglie convivono
per anni tra fatiscenti divisori e porte di cartone. L'intera Italia aveva
perso la guerra, ma solo questa parte di popolazione ne pagava il debito…
Dopo decenni di silenzio, di recente il Parlamento italiano ha
istituzionalizzato all'unanimità il Giorno del Ricordo, celebrato il 10
febbraio. L'impronta secolare delle architetture venete resta tuttora
indelebile nelle case, nei campanili, nelle bifore, nei Leoni di San Marco:
ovunque scorci di piccole Venezie. (L.B.)

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