Nonostante viva nella fluviale evocazione di un passato che non passa, Enzo Bettiza, classe 1927, dice di fregarsene dell’anima slava. E io che gli siedo di fronte penso che sia vero e che in lui non ci sia nulla di dissipativo, di incauto, di nostalgico. I suoi pensieri sembrano uscire da qualche porta laterale della Mitteleuropa. Mi ricordano quei personaggi dostoevskiani ammaestrati da una sobria e distaccata vecchiaia. Come quella di Peter Jarkovic, protagonista del suo ultimo romanzo: La distrazione, dove ancora una volta egli rilegge il secolo che si è chiuso: “Come fosse un dono, una tragedia, un’ossessione da ripercorrere con la parola scritta”, precisa con voce scandita.
Una parola scritta e divisa tra romanzo e giornalismo. Quale ha contato di più?
“Non farei una distinzione, se non di genere. Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità. Sono nato a Spalato. Ho avuto un’infanzia privilegiata. La famiglia era ricca. Un nonno industriale del cemento. Poi la guerra. I rivolgimenti. La rapida fine di un mondo. Il mio mondo. Conoscevo il tedesco, il croato, l’italiano. In casa si parlava veneto. La Dalmazia aveva avuto una lunga storia con Venezia. La marina della Serenissima era composta di istriani e dalmati. Mi affascinavano le mescolanze di lingue, di storie e di uomini. Poi la felicità venne meno. Mi ammalai. Scoprendo, improvvisamente, il senso della precarietà”.
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