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E D’Annunzio varcò il suo Rubicone (Voce del Popolo 12 set)

«Mio caro compagno, il  dado è tratto! Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d'Italia ci assista. Mi levo dal letto, febbricitante. Ma non è possibile differire. Ancora una volta lo spirito domerà la carne miserabile. Sostenete la causa vigorosamente, durante il contatto Vi abbraccio.”

Era l’11 settembre 1919 quando Gabriele D’Annunzio annunciava a Mussolini che egli dava inizio all’impresa di Fiume, sulla quale, secondo il Vate, l’Italia doveva rivendicare i propri diritti. Novant’anni fa, con il colpo di mano del 12 settembre 1919, iniziava la vicenda di Fiume italiana; una vicenda che occupa in genere nei testi di storia poche e frettolose righe, ma che continua sì ad attirare l’attenzione di storici e studiosi e degli appassionati di questo periodo e della figura di D’Annunzio, ma che non smette altresì di essere al centro di polemiche e interpretazioni.

Per non dire che, su questa vicenda, si sono spesso scontrate e hanno incrociato il fuoco le varie storiografie, nazionali(stiche) e non, offrendo non di rado visioni di parte di questo travagliato e burrascoso periodo, o perlomeno un’immagine  riduttiva, per non dire che l’impresa è stata non ri rado fagocitata e utilizzata a fini propagandistici. Questo fatto ha per certi aspetti a lungo impedito, per motivazioni soprattutto politiche, di porre nel giusto contesto storico la vicenda e di consentirne una sua compiuta analisi.

Negli ultimi anni sono comunque usciti significativi studi e ricerche che consentono di coglierne le varie sfaccettature. È anche vero, d’altro canto, che se di Fiume si parla, nei libri di testo di storia italiani, è quasi ed esclusivamente per l’epopea dannunziana.

Perché ricordare, dunque, a distanza di nove decenni, questa pagina del nostro passato? Perché se è un fatto indubbio che la vicenda di Fiume è creatura e al tempo stesso vittima del protagonismo di D'Annunzio è anche inconfutabile che, al di là delle sue limitate dimensioni, appare di estremo interesse per comprendere meglio l'Italia di allora – e la sua politica nei confronti del confine orientale – e in genere il  Vecchio Mondo, immersi in una serie di problemi che la Grande Guerra aveva solo rimandato e in buona parte aggravato. Certo, è indubbio che l’avventura di Fiume non sarebbe esistita senza D’Annunzio.  Pescarese, classe 1863, allo scoppio della Grande Guerra aveva già dato il meglio di sé come poeta, scrittore, drammaturgo. Il suo nome era famoso non solo come letterato, ma anche come tombeur de femmes.

Allo scoppio del conflitto, tra interventisti e neutralisti, si schiera senza esitazioni con i primi e durante la Grande Guerra, ormai ultracinquantenne, diventa protagonista di imprese clamorose per mare, con la famosa beffa di Buccari, e nel cielo, col clamoroso volo su Vienna. Perderà un occhio in battaglia e alla fine delle ostilità avrà acquistato una gloria nazionale indiscutibile: sarà il poeta-soldato, Medaglia d'Oro, modello di vita oltre che di arte.

Inconfutabile, dunque, la centralità di questo personaggio nell’intera vicenda. Ma è altrettanto inopinabile  che D’Annunzio non avrebbe potuto intraprenderla se non avesse avuto da cavalcare un clima spirituale, sociale, politico che la rese possibile. Le conclusioni della pace di Versailles e di Saint Germain–en-Laye, siglati al termine della Prima guerra mondiale, poco favorevoli per l’Italia, avevano lasciato un largo malcontento nel paese, determinando la caduta del ministero di Vittorio Emanuele Orlando. Gli succedette Francesco Saverio Nitti, che seppe comprendere la difficoltà della situazione, ma non fu in grado di risolvere la questione fiumana, che insieme a quella dalmata, era determinante per l’Italia in quel momento.

Il problema era delicato: il patto  di Londra (1915) stipulato prima dell’entrata in guerra dell’Italia, era stato firmato quando non si prevedeva ancora la formazione del nuovo  Stato jugoslavo (rispettivamente del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni nel dicembre del 1918). Ora nei tavoli della pace si negava all’Italia anche il diritto su parte della Dalmazia. 

Fiume, comunque, non faceva parte del pacchetto delle rivendicazioni italiane presentate a Londra nel 1915: esso prevedeva l’assegnazione all’Italia del Trentino fino al  Brennero, di Trieste e le Alpi Giulie, di tutta l’Istria, di quasi tutta la Dalmazia,  Valona e il suo entroterra albanese e il Dodecanneso. Ma a Fiume nessuno aveva pensato.

Durante la guerra l’Italia aveva perso 600.000 uomini per completare l’agognata unità che ora i trattati volevano in parte togliere. Negli ambienti degli ex combattenti si diffondeva così il mito della “vittoria mutilata”, che faceva crescere il malumore contro un’Italia matrigna e insensibile. A Fiume la maggioranza della popolazione della città era etnicamente italiana (al censimento del 1910, su 50.000 abitanti in Fiume città, 24.000 erano italiani, 15.000 croati e il resto di altre nazionalità, con una predominanza di quella ungherese). Ma è altrettanto  vero che se il sobborgo croato di Sussak, dove vivevano circa 15.000 persone, fosse stato considerato parte integrante del territorio municipale, la maggioranza sarebbe stata dei croati, contando questi ultimi, come abbiamo visto, altri 15.000 abitanti tra i 50.000 che costituivano la popolazione di Fiume città.

Quando prima della fine del conflitto, esattamente nei primi giorni di ottobre, a Fiume si diffuse la notizia che nel Patto di Londra la città non era compresa nelle rivendicazioni territoriali italiane, ma figurava assegnata  praticamente alla Croazia (e al Regno SCS), i fiumani iniziarono a riunirsi segretamente presso la sede della Società Operaia e presso la Società Filarmonico-Drammatica per decidere una linea comune di azione.

Gli ultimi giorni di ottobre furono molto convulsi, dopo uno scontro tra patrioti ungheresi e soldati croati acquartierati nella piccola caserma dell'allora piazza Eneo, il 29 ottobre il governatore ungherese Zoltan Jekel-Falussy, consegnò formalmente  i pieni poteri al podestà Antonio Vio, con l’intesa che li avrebbe poi trasmessi al Comitato Nazionale Croato di Sussak. Jekel-Falussy non fece altro che eseguire gli ordini superiori, poiché le autorità centrali austriache avevano ceduto l’autorità sul resto del territorio croato al Consiglio Nazionale dei Serbi, Croati e Sloveni di Zagabria.

Il 29 ottobre a Fiume, mentre le autorità ungheresi abbandonavano la città, nel salone grande della Filarmonica si costituì immediatamente un Consiglio Nazionale Italiano, con a capo Antonio Grossich. Il 30 ottobre fu letto il Proclama di annessione di Fiume all’Italia, compilato dal dr. Lionello Lenaz, preventivamente approvato da Antonio Grossich e da Giovanni Rubinich, ai membri del Consiglio Nazionale radunatisi nella Sala del Consiglio Municipale.

Gli italiani di Fiume facevano proprio il principio del diritto all’autodecisione dei popoli, propugnato dal presidente statunitense Thomas Woodraw Wilson in uno dei suoi famosi 14 punti, che erano stati accettati dalle potenze vincitrici poco prima della fine della guerra. “Come!, volete darci ai  croati mentre da soli ci siamo difesi  per quattro secoli. L'impero austroungarico è crollato, ma noi siamo una città libera e indipendente.” Era  una della lunga serie delle petizioni fiumane a Wilson.

Ma quest’ultimo non ammetteva che un milione di slavi della Dalmazia fossero trasferiti “come un gregge” entro i confini italiani e considerava Fiume più necessaria alla neonata Jugoslavia che all’Italia. L’opinione pubblica italiana era in agitazione contro la “vittoria mutilata” imposta dal presidente americano. E la voce più illustre che guidava questa protesta era quella del “poeta- soldato”.

A Fiume, ancora incerta sul suo destino di città libera, il 2 luglio 1919 i soldati francesi strapparono i gagliardetti tricolori alle donne in strada; la folla allora si scatenò provocando gravi disordini. I granatieri del 2° Reggimento spararono sui francesi che lasciano sul terreno diversi  morti. I “Francesi” non si erano neanche resi conto del loro gesto provocatorio, poiché erano coloniali indocinesi. La commissione alleata chiese l’allontanamento dei Granatieri, che rientrano in Italia il 25 agosto.

L’11 settembre, gli ufficiali e i rappresentanti del Consiglio di Fiume offrirono a Gabriele D’Annunzio la guida della riconquista della città. D’Annunzio si rivolse per un sostegno politico a Mussolini, ma questi, giudicati i tempi immaturi, si defilò. D’Annunzio, 55 anni, congedato in giugno, viaggerà a bordo di una Fiat 501 Tipo 4 rossa, seguito dai camion prelevati a Palmanova carichi di Granatieri. Lungo la strada per l’Istria i rivoltosi non incontreranno spiegamenti di forza decisi, vuoi per la volontà dei comandi locali imbarazzati a sparare a decorati e commilitoni di quattro anni di sofferenze, vuoi per la mancanza d’affidabilità che venne data all'azione dimostrativa.  A mezzogiorno del 12 anche gli ultimi Carabinieri inviati a fermarlo si rifiutano di sparare e alle 12.30 la colonna entrò in città.  In seguito verrà proclamata la costituzione di un governo provvisorio (la Reggenza italiana del Carnaro), episodio che segnerà una delle pagine più epiche della storia fiumana e italiana. Poi sappiamo come andrà a finire.

Il 12 novembre 1920, il Trattato di Rapallo, assegnerà l’Istria e l’alto-isontino all’Italia, mentre in Dalmazia solo Zara e alcune isole del Quarnaro verranno riconosciute agli italiani. In base a tale trattato, Fiume diventava Stato Libero e indipendente, decisione respinta dal governo dannunziano padrone della città. Ciò provocherà l’intervento delle forze armate italiane nella notte di Natale (Natale di Sangue) dello stesso anno, costringendo D’Annunzio ad abbandonare la città. Lo Stato Libero di Fiume durerà solo un anno e mezzo, abbattuto il 3 marzo 1922 da un’insurrezione di armati fascisti e dannunziani, guidati da Francesco Giunta e dal fiumano Nino Host Venturi.

Dopo due anni di commissariamento e trattative si arrivò alla stipula, nel gennaio del 1924, del Trattato di Roma voluto da Mussolini. Fiume venne spartita con la Jugoslavia: la città e il porto toccarono all’Italia, mentre Porto Baross e il Delta finiranno sotto la giurisdizione del governo jugoslavo.

Ilaria Rocchi

 

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