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Dunja Bradnjevic narra la verità su Tito e Goli Otok (Messaggero Veneto 01 nov)

di SERGIO BUONADONNA

La guerra li ha divisi, la letteratura li riunisce. Dunja Badnjevic, serba, e Drago Jancar, sloveno, hanno ricevuto a Cosenza il premio per la Cultura Mediterranea. Un segno molto significativo nel solco di una scelta che fin dal primo anno la Fondazione Casse di Risparmio di Calabria e Lucania (non a caso presieduta da un uomo di lettere, Mario
Bozzo) ha voluto dare unendo personalità di mondi che solo la follia umana vuole in conflitto. Aveva cominciato premiando insieme Amos Oz e Tahar ben Jelloun, e proseguito l’anno scorso con Marina Nemat ed Elvira Dones, coraggiosissime donne di Iran e Albania.

Dunja Badnjevic, belgradese, da quarant’anni vive in Italia. Traduttrice dei grandi scrittori slavi, fa molto parlare di sé per la sua opera prima, L’isola nuda (Bollati Boringhieri) in cui con accenti di forte emozione porta alla luce la vicenda di confinato politico del padre nella famigerata Goli Otok, già al centro del romanzo Alla cieca di Claudio Magris. Il papà, Ešref Badnjevic, vi fu rinchiuso dopo lo strappo di Tito dall’Urss. Era internazionalista e convinto che Stalin operasse per il bene del comunismo e dell’umanità. Si sbagliava ma si sbagliò anche Tito: il lager di Goli Otok fu un inferno come tutti i luoghi concentrazionari e il diario che ora la figlia svela ne è tragica testimonianza.

Che cosa l’ha spinta al romanzo-verità?

«Era un debito verso mio padre. La sua denuncia degli orrori del campo è naturalmente successiva perché nell’isola non poteva scrivere, né durante il regime di Tito sarebbe stato possibile pubblicare atti d’accusa».

Cosa sono oggi parole come comunismo, internazionalismo, socialismo reale?

«Parole vuote. Mio padre credeva davvero in un socialismo in cui tutti potevano essere uguali e stare bene, un’idea molto utopistica simile al cristianesimo della prima ora, ma oggi è una prospettiva irreale anche se ha mosso milioni di uomini».

Lei ha lasciato la Jugoslavia nel 1966 e definisce la sua condizione “apolitudine”.

«Apolitudine perché mi sento privata della mia identità: i confini, la geografia, la storia non esistono più, ma io ho enorme nostalgia della Jugoslavia. Nonostante la storia di mio padre penso che era un Paese bello, forte, importante. Mi sentivo orgogliosa di essere jugoslava, oggi quasi bisogna vergognarsene».

Lei scrive: “La realtà dei Balcani ha superato di gran lunga ogni possibile previsione “.

«Anche Churchill diceva che i Balcani hanno una storia troppo pesante per poterla digerire. E le voci di grandi scrittori come Ivo Andric – che io ho tradotto in Italia – non sono servite a niente».

Se n’è data una spiegazione?

«Quando era cominciata la guerra in Croazia, ero andata a Belgrado a intervistare Gilas, il dissidente di destra. Chiesi a sua moglie croata cosa stesse succedendo perché non capivo. Significa che sei ancora normale, mi rispose. Per capirlo bisogna essere pazzi come quelli che stanno muovendo i fili di una tragedia».

Cadevano le illusioni o semplicemente vinceva la follia?

«Follia, follia. Io, che sono la figlia di un uomo che è passato per l’isola nuda, non dovrei essere tanto vicina a Tito, ma devo dire che lui riusciva a tenere le redini del paese. La sua scomparsa ha generato la pazzia. Una mia amica di Belgrado mi diceva allora di temere un colpo di stato militare. Magari fosse avvenuto! Ma ci sono tanti archivi che ancora devono essere scoperti, memorie sepolte che quando verranno fuori ci consegneranno terribili verità».

Qual è il suo sguardo dall’Italia, oggi che la Slovenia è nell’Unione europea e Serbia, Croazia e altri bussano alle porte?

«Mi domando che senso abbia pensare all’Unione europea quando si è prodotta una tale frantumazione. Un anacronismo, un non senso, ma certamente chi è più forte o ha meno colpe troverà strada facile; la Serbia che è identificata come lo Stato colpevole farà fatica. Non basta dire che in Europa ci siamo geograficamente, bisogna sapere che cosa significa tornarci. Per far questo bisogna ridare alla parola Mitteleuropea un senso vero. Chi comanda oggi a Belgrado, a Zagabria e altrove ha questa capacità?».

In una conversazione con Magris lei ha osservato che è tutta colpa del ’56. Se i sovietici avessero capito la necessità di rinnovare, anziché reprimere, davvero tutto questo non sarebbe successo?

«Penso che tutta la sinistra avrebbe potuto avere una legittimità più concreta. Il ’56 è stato un anno di confine: chi se n’è andato, chi è rimasto, stesso dolore, stessa impotenza».

Che cosa sta scrivendo?

«Una storia che ruota intorno alle figure di Tito e di Berlinguer, di cui ero interprete, per dire come la loro morte abbia cambiato molto le identità, della Jugoslavia e del Pci. Una storia che viene dal cuore».

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