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Celebriamo il 27 marzo

Alla fine della seconda guerra mondiale gli italiani si accorgono che non basta aver combattuto nella resistenza contro tedeschi e fascisti per riuscire ad evitare il destino dei vinti. Assai presto ci si rende conto che aver perso la guerra al confine orientale d'Italia significa anche perdere le proprie terre a vantaggio della Jugoslavia. Più a Nord, si rischia addirittura di dover cedere territori anche a vantaggio dell'Austria.

L'Italia ha pochissimi mezzi per reagire al suo destino di Paese sconfitto. Ci sono le trattative diplomatiche, ma nessuno si fa molte illusioni. Migliori prospettive di tenuta territoriale, forse, si possono ottenere grazie ad una accorta azione propagandistica sul terreno. In sostanza, zona per zona bisogna dimostrare la prevalenza etnica italiana.

Tutti sanno che è così, ma bisogna farlo vedere anche al resto del mondo, tutt'altro che ben disposto nei confronti degli italiani. Per riuscirci bisogna fare politica, ma questa attività può essere svolta solo se il contesto generale lo consente, cioè se le autorità militari che controllano il territorio autorizzano riunioni e manifestazioni. Soprattutto, occorre che tutti si convincano che manifestare per l'italianità sia utile. Ma è difficile agire in una situazione di grave tensione politica, spesso segnata dalla violenza omicida.

La situazione inizia a cambiare nel 1946 quando giunge in Regione la Commissione interalleata. Si tratta di un organismo deciso dagli Alleati per studiare la situazione sul territorio al fine di tracciare i futuri confini orientali d'Italia. In realtà  la storiografia ha ormai accertato che la Commissione era solo una copertura scientifica a scelte squisitamente politiche e strategiche. Ma per l'opinione pubblica italiana lungo il confine quello è il momento delle scelte irrevocabili: bisogna dimostrare al mondo intero di essere italiani.

Gli italiani, semplicemente, nelle zone contestate sono di più: devono solo mostrare il loro numero. Non è una novità: in quelle terre la conta delle bandiere per dimostrare l'appartenenza etnica di un territorio è già stata tentata nel novembre 1918, quando i paesini della frontiera orientale, per tentare di confondere gli osservatori sul reale orientamento etnico di quelle terre, accolgono i reggimenti imperial-regi sloveni in ritirata con uno sventolio in bianco, rosso e blu. Poi giunge il Regio Esercito e rimette le cose a posto.

Ma nel 1946 non c'è alcun esercito italiano, mentre proprio allora nella Zona B ci sono almeno sette divisioni jugoslave (ma secondo altre fonti ce ne sono almeno dieci). Belgrado non enfatizza la presenza militare al confine, ma tra gli Alleati non mancano le preoccupazioni, nel timore che l'ammassamento di così tanti soldati possa mascherare ipotesi aggressive verso le proprie forze. In realtà, quelle truppe servono essenzialmente per condizionare la locale popolazione italiana, e ci riescono perfettamente, se dalla visita nella Zona B i commissari britannici riportano l'impressione di un regime di terrore.

L'unica affermazione di italianità si ha nella enclave di Pola, all'epoca sotto controllo alleato, dove gli italiani danno vita ad un immenso corteo. Ma nel resto della Venezia Giulia la situazione è differente. Gli sloveni sono molto bravi con la propaganda, ma i numeri sono contro di loro e quindi più di tanto non possono confondere la realtà etnica delle terre italiane di confine. È il momento degli italiani: la componente italiana rialza la testa soprattutto a Trieste e a Gorizia. Le fonti alleate segnalano lo stupore degli angloamericani per quello che viene chiamata una "resurgence of italianity", una rinascita dell'italianità evidentemente inattesa. In quei giorni di fine marzo la folla e i tricolori inondano le vie e le piazze delle città giuliane.

Le massicce dimostrazioni della italianità del confine giuliano non incidono più di tanto sui lavori della Commissione interalleata, ma hanno una importanza decisiva nel ridare fiducia agli italiani. Come per incanto tra i gruppi dirigenti delle forze filoitaliane si dissolvono le incertezze sulle manifestazioni di massa in difesa della italianità delle terre giuliane. Soprattutto, cambia l'atteggiamento nei confronti degli scontri di piazza: gli italiani hanno sperimentato la propria forza e la propria determinazione e hanno capito di poter tenere la piazza nei confronti degli slavi, che invece sono costretti a richiamare gente dalle zone compattamente slave per farla marciare nelle città compattamente italiane.

Le manifestazioni del marzo 1946 si incidono nella memoria dei protagonisti: a Gorizia rimane viva soprattutto la memoria della fiaccolata che attraversa la città isontina.

"Era una cosa seria, grande", dice ancora oggi chi vi ha partecipato e conserva nella memoria quel momento di orgoglio nazionale. Proprio per questo, le giornate di marzo del 1946 sono un patrimonio nazionale che deve essere conservato e valorizzato da una comunità che senza arroganza ci tiene ad essere italiana anche lungo un confine europeo.

La Lega Nazionale di Gorizia, unitamente al Comitato provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia saranno presenti anche quest’anno in Largo 27 marzo per ricordare, come tradizione, le grandi manifestazioni di piazza del 26 e 27 marzo 1946.

Nella circostanza fu decisivo l’apporto dell’Associazione Giovanile Italiana e della Lega Nazionale.

Proprio a ricordo di questi accadimenti è stato intitolato il Largo 27 Marzo, che congiunge le vie Oberdan e Mameli, dietro il Palazzo dell’Inps.

Sotto la targa verrà depositato un omaggio floreale sabato 27 marzo prossimo, alle 17.30.

Rodolfo Ziberna, Presidente del Comitato ANVGD di Gorizia

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