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Capodistria, territorio unito (Voce del Popolo 22 ott)

CAPODISTRIA – Il settore italiano della Biblioteca centrale “Srečko Vilhar” di Capodistria ha ospitato il IX Convegno annuale di studio della Deputazione di Storia patria per la Venezia Giulia. Si è trattato di un incontro scientifico di notevole spessore in cui sono stati affrontati non pochi aspetti della storia e della cultura dell’Adriatico settentrionale, con un accento particolare alla patria di San Nazario. La giornata di studio ha avuto carattere multidisciplinare, infatti ha toccato l’archeologia, la storia ecclesiastica, culturale, economica e politica. Come hanno sottolineato gli organizzatori, le iniziative di questo genere hanno una grande valenza poiché rappresenta un momento di incontro, di analisi e di collaborazione tra studiosi provenienti da varie realtà ma che si occupano di problemi legati alla medesima area geografica. Le relazioni presentate hanno esplicitamente dimostrato l’unitarietà del territorio nel corso dei secoli, quello stesso che solo a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale aveva conosciuto una cesura e lacerazioni che lo modificarono profondamente. E tale aspetto non è certo scontato, in quanto solo poche volte quello spazio viene considerato nella sua unitarietà, che non necessariamente deve coincidere con i confini di una determinata nazione.

Continuità abitativa

Dopo i saluti di Amalia Petronio e Ivan Marković, della Biblioteca centrale, di Gino Bandelli, vice presidente della Deputazione, e di Alberto Scherani, vice sindaco del Comune di Capodistria, sono iniziati i lavori. I primi relatori hanno preso in esame il passato remoto, e attraverso la presentazione dei risultati delle indagini archeologiche hanno proposto i nuovi dati acquisiti. Radovan Cunja si è soffermato sulle “Ricerche archeologiche a Capodistria” e ha proposto alcune riflessioni sulle ultime indagini. Ha passato in rassegna i siti presenti sul territorio quindi si è soffermato sullo spostamento del nucleo abitativo dalle foci del Risano all’isola capodistriana, che già nel IV-V secolo d.C. annoverava una continuità abitativa, mentre nel VI sec. ebbe inizio lo sviluppo urbano. Le indagini vere e proprie, che hanno fornito non poche informazioni, risalgono alla metà degli Ottanta del secolo scorso, e quasi sempre si trattava di scavi di prevenzione o di emergenza. Il ricercatore ha parlato anche degli scavi lungo la cerchia muraria, ossia di ciò che resta della stessa, dato che a partire dalla metà del XVIII secolo venne progressivamente abbattuta e nel secolo successivo rasa al suolo, salvo il breve tratto ancora esistente. L’opera difensiva venne edificata su aree strappate al mare e interrate con materiali di riporto. Con l’ausilio di immagini è passato a trattare anche i rinvenimenti nell’orto conventuale di Santa Marta (1986-87) e in quello di Santa Chiara (1989).

Tra terra e mare

Rita Auriemma e Snježana Karinja con la relazione “Tra terra e mare. La fascia costiera alto adriatica in età romana”, hanno esposto i risultati di un progetto interreg, che ha visto coinvolte nelle ricerche archeologiche, lungo la fascia costiera compresa tra le foci del Timavo e le saline di Sicciole, numerose istituzioni sia italiane sia slovene. Gli esperti ripresero gli studi già iniziati da Attilio Degrassi, celebre antichista ed epigrafista, e poi interrotti – con non poco suo rammarico – verso la metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, causa la nuova situazione politica che si venne a creare. Le due archeologhe hanno poi commentato i risultati delle indagini presso alcuni siti: l’area del “lacus Timavi”, l’area di Sistiana e Grignano, la villa di Barcola, la penisola di Muggia, Stramare e San Bartolomeo, Capodistria – sono convinte che ulteriori ricerche porterebbero alla luce i resti delle strutture portuali –, Vilisan e San Simone presso Isola, e Fisine, non lungi da Portorose, con la presenza delle antiche peschiere ora completamente sommerse dal mare s causa del fenomeno del bradidismo.

Pier Paolo Vergerio

Silvano Cavazza ha parlato degli “Incontri di Pier Paolo Vergerio nell’esilio (1549-1565)”. Lo storico dell’Università di Trieste, nonché uno dei maggiori studiosi del celebre capodistriano, ha esordito rammentando le difficoltà che il ricercatore incontra nel suo percorso di ricerca concernente il teologo, in quanto non esiste uno studio che abbracci la sua vita dopo l’esilio. Tra le opere che hanno contribuito a divulgare al grande pubblico il suo percorso umano e culturale ha ricordato il romanzo di Fulvio Tomizza (“Il male viene da nord”), che, nonostante non sia un saggio storiografico, è il risultato di non pochi studi fatti dallo scrittore di Matterada. Se si volesse ricostruire la biografia del già vescovo negli anni del suo esilio non si dovrebbe assolutamente guardare solo ai libri che ha scritto in quanto si rischia di travisare la sua vita. Le sue opere – varie edizioni, comprese le traduzioni – si aggirano tra le 250-260 unità, ed i lavori degli anni 1549-1565 sono, tra le altre cose, difficili da controllare poiché sovente essi esistono in una sola copia o in pochissimi esemplari custoditi nelle più varie biblioteche d’Europa. Una fonte di primaria importanza per analizzare la vita di Vergerio sono le lettere. Anche qui esiste un problema non indifferente; le epistole sono tante (circa diecimila) e nessuno le ha mai catalogate, perciò sono in buona parte non note, e se tutto ciò non bastasse sono conservate in archivi tedeschi, polacchi e russi (a Kalingrad, l’antica Königsberg). Cavazza ha menzionato, come esempio, l’epistolario con il duca del Wittemberg consistente in 244 lettere e 50 allegati che riguardano il periodo 1553-1565 e particolarmente importanti. Insomma l’inventariazione e la pubblicazione di queste preziose fonti sono un’impresa molto ardua e di rilievo europeo, data la dispersione delle stesse in molti punti del vecchio continente.

Tra resti romani e vicende della diocesi

Matej Župančič, con “A proposito dei due interventi profanatori sul pozzo del palazzo vescovile di Capodistria”, ha messo in rilievo alcuni reperti venuti alla luce negli ultimi anni, nella fattispecie i resti architettonici romani rinvenuti nel centro cittadino, ossia nel giardino vescovile. Uno dei problemi legati alla presenza di epigrafi e di altri resti di epoca romana è la loro provenienza. Per molto tempo si era dell’opinione che siffatti materiali fossero arrivati da altre località, però già in uno studio del 1971 si mise in evidenza che i resti non erano giunti sul territorio insulare solo grazie ai collezionisti.
Roberta Vincoletto ha illustrato “La diocesi di Capodistria a metà del Seicento”. La relatrice ha ricordato che il clero crebbe di gran numero e nel XVII secolo le parrocchie erano quindici, ma, nonostante questo, vi era una scarsità di rendite a causa delle situazione economica degradante. Negli anni Sessanta di quel secolo la diocesi annoverava una popolazione di circa 13000 anime e nella stessa si registrava un quarto di tutto il clero istriano. Nella presentazione la storica ha menzionato Francesco Zeno, già vicario generale e canonico a Creta, trasferitosi a Capodistria a seguito dell’irrompere dei Turchi nel corso di quel lungo conflitto. E si è soffermata anche su Paolo Naldini, noto, tra le altre cose, anche come fondatore del primo istituto di formazione nella cittadina (1710). A quell’epoca le processioni erano molto amate dalla popolazione, parte del clero aveva studiato a Padova mentre la maggioranza di esso si formava in loco.

«L'anno senza estate»

Almerigo Apollonio ha illustrato “La carestia degli anni 1816-1817 nelle Province del Litorale Austro Illirico – Un’introduzione. Il suo intervento ha preso in considerazione la situazione a livello generale per poi passare brevemente alle terre dell’alto Adriatico. Già nel 1815 la produzione agricola non era delle migliori, mentre il 1816 era “l’anno senza estate”. A est dell’isola di Bali (Indonesia) era scoppiato il vulcano Tambora – si tratta di una delle maggiori eruzioni di cui si ha memoria – e a causa del raffreddamento globale che ne seguì, dovuto all’enorme quantità di cenere vulcanica, il globo sprofondò in un periodo di grande carestia. Il crollo delle produzioni si registrò in Europa come in Russia o negli Stati Uniti. La conseguenza fu un aumento vertiginoso dei prezzi, che trasformò buona parte della popolazione in masse di poveri che mendicavano un po’ di cibo. Particolarmente difficile era la situazione nelle città. Anche nel Litorale austriaco la vita divenne ardua, e come esempio Apollonio cita il caso di Grado, nel 1817 infatti si pensava addirittura di abbandonare la cittadina perché attraverso il pescato, controllato dall’annona, era quasi impossibile sopravvivere. Si verificò un dissesto sociale ed economico, non vi erano soldi in circolazione e la popolazione dovette vivere di erbe – malgrado a Trieste vi fossero i magazzini pieni di merci provenienti dai porti del mar Nero, soprattutto da Odessa –, “alimentandosi come gli animali”. Nel Pinguentino la gente moriva letteralmente di fame (i parroci scrivevano “li vedo neri di fame”), nella Cicceria si manifestò invece il brigantaggio, e ciò comportò la formazione di milizie per fronteggiarlo, con impiccagioni e presidi delle vie di comunicazione.

La Prima Esposizione Provinciale Istriana

Salvator Žitko ha relazionato su “La Prima Esposizione Provinciale Istriana (1910) e gli antagonismi nazionali in Istria”. Malgrado in Europa vi fossero periodicamente esposizioni regionali l’Istria e Trieste mai ne proposero una prima di quella. Le ditte, gli enti e gli imprenditori ricevevano spesso gli inviti a partecipare ad esposizioni che si tenevano in Italia (Milano, Napoli, Brescia, Padova, ecc.). In regione si registra, nel 1907, una mostra slovena di artisti contemporanei presso il Narodni dom di Trieste, mentre a Pisino si tenne un’esposizione di arte e fotografie. La prima idea di promuovere quella manifestazione a Capodistria risale al 1904 e tre anni più tardi venne istituito un comitato di studio nonché un comitato esecutivo, il cui presidente era il capitano provinciale Lodovico Rizzi. In quel 1907 gli organizzatori avevano previsto un posto nei rispettivi comitati anche per i rappresentanti del partito slavo e pertanto furono contattati. Žitko ha evidenziato che tale cambiamento da parte italiana era il riflesso delle elezioni politiche di quell’anno, che, attraverso i risultati delle elezioni a suffragio universale, avevano preoccupato non poco i liberal-nazionali. Ma tra i partiti sloveni e croati vi furono critiche e perplessità, accusavano gli organizzatori di voler sottolineare esclusivamente il carattere italiano, perciò, secondo Matko Laginja, l’esposizione avrebbe dovuto avere un carattere locale e non provinciale. Alla fine la risposta fu che sia gli Sloveni sia i Croati non avrebbero aderito, nonostante una parte della stampa considerasse quella linea controproducente. Il primo maggio del 1910 venne finalmente inaugurata la mostra, grazie ai collegamenti via mare nonché attraverso la ferrovia a scartamento ridotto a Capodistria giunse un considerevole numero di visitatori, e la manifestazione si trovò al centro dell’attenzione e fu oggetto di una vivace discussione politica.

Kristjan Knez

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