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Assessore smemorato non legge i libri che pubblica (Il Giornale 18 apr)

GENOVA. «Mia terra non mia./ Mia casa/ non mia. Terra dei padri/ senza terra per seppellire i padri/ senza ombra d'alberi/ per i figli viandanti». Sono versi da Confine del fiumano Gino Brazzoduro, ingegnere che studiò alla Normale di Pisa. Con la prefazione di Biagio Marin, nel 1980, sono stati pubblicati dalla San Marco dei Giustiniani nella collana Il Leudo diretta da Giorgio Devoto, appassionato di poesia.

Il comportamento di Devoto, assessore alla cultura in Provincia, è stato stigmatizzato dagli esuli giuliano-dalmati per il Convegno storico sulle Foibe, tenuto senza apporto di testimoni. Ricordava Devoto i versi che pubblicò e hanno dentro tutto? Tutto, cosa? «La grande tragedia che provocò lo sradicamento degli italiani dalla Dalmazia, da Fiume, dall'Istria», parole dalla prefazione di Marin, il poeta dialettale di Grado apprezzato da Magris come da Sansa.

Tutto, cosa? A Fiume, la città di Brazzoduro, nel 1919, un anno dopo il plebiscito che aveva dimostrato la volontà della maggioranza di sentirsi italiana, ci fu il «Plebiscito dei Morti». Nel cimitero cittadino 2304 le lapidi scritte in italiano (l'81,32%), in croato 206 (il 7,22%), 16 in latino.

Nel 1945, per cancellare l'identità italiana, cominciò l'esproprio delle tombe, chiedendo una tassa cimiteriale per le tombe di «proprietà perpetua e inalienabile». Molti discendenti-proprietari, irraggiungibili dopo l'esodo, persero quel diritto. Cancellare la memoria dopo aver tentato di cancellare l'identità fisica, non è pulizia etnica?

Una riflessione dal libro Bruno Artusi e gli esuli da Pola del polesano Lino Vivoda: dopo il Diktat del '47 «Trentamila cittadini scelsero l'Italia, restarono 4mila abitanti del suburbio imbevuti di propaganda comunista. Si scontrarono presto con la realtà del nazionalismo jugoslavo. Oltre duemila, fruendo di opzioni o con le fughe, abbandonarono la città snaturata dall'immissione di decine di migliaia di montenegrini croati bosniaci serbi». Parole che portano ad un'altra riflessione: «In che clima si formarono pseudo-storici come la Kersavani, la Cernjal o disinformati sulle Foibe come Giacomo Scotti, Pedrag Matvejevic che invocano risibili alibi su ritorsioni contro il fascismo?»

Gli esuli – due volte italiani, per nascita e per scelta – e incalzati dalla paura della morte (l'avevano vista) furono 350mila e nelle loro famiglie i testimoni sanno. Oggi: la Foiba di Basovizza ha ancora il libro bianco sotto la pietra, non un nome esposto: dall'altra parte non si gradisce.

In quella prefazione di Marin si trova «una scivolata d'ala» quando il poeta chiede a Brazzoduro se sia stato partigiano. Questi che non lo fu mostra «partecipazione alla lotta per la libertà». Ricordo lo storico François Furet sul modo migliore per non capire il passato: «Esaltarlo o demonizzarlo», e ripenso a Croazia 1944, diario di guerra di un diciassettenne (Lint) del reporter triestino Ugo Borsatti (il cui Archivio, 350mila negativi, è acquisito dalla Fondazione CRTrieste). Fuggì dal lavoro coatto sotto i Tedeschi, fece l'esperienza partigiana: deportato a Delnice, incontrò lavori forzati e sevizie. Vide eliminati a raffiche di mitra 23 prigionieri italiani e tedeschi, militari e civili, inermi e senza colpa.

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