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Arrigo Levi: l’Italia che resiste (La Stampa 10 mag)

Ma l’Italia, cos’è? Immagini dell’Italia diverse, anzi contraddittorie, mi sono state proposte, per una serie di casuali coincidenze, in questi ultimi giorni. Mi è accaduto di rivivere al Quirinale le giornate tremende dell’assalto delle Br al «nostro Stato».

Ho ritrovato nei discorsi pronunciati dai figli di alcuni dei giudici che furono tra le vittime della violenza terroristica, come nella riflessione del Capo dello Stato, mosso a commozione dai ricordi, quell’istintivo orgoglio che allora ci permise di dire con certezza, anche nei momenti più foschi, «non passeranno».

Il giorno prima avevo partecipato a Trieste ai funerali di Corrado Belci, già profugo istriano, creatore del «Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico», già deputato democristiano, che era stato, accanto a Zaccagnini, uno di quei politici d’una volta, motivati sempre e soltanto da ideali sinceri e senso del dovere, di cui oggi anche chi non ha mai votato Dc o Pci sente una pungente nostalgia. Belci era un cristiano vero, che non aveva mai odiato nessuno, che aveva sempre lavorato per la riconciliazione fra popoli già nemici, e che nel Collegio di Duino, con i suoi duecento studenti provenienti da ogni parte del mondo, aveva dato la sua risposta creativa alla sfida terribile del Ventesimo Secolo. C’eravamo, a dirgli addio, centinaia di amici: per sua volontà, la sua commemorazione non era affidata ad autorità o noti personaggi, ma solo alle sentite parole di un vecchio e solido vescovo, che aveva officiato una cerimonia semplice e intensa, con la forte partecipazione dei presenti. Intanto mi erano giunte da Torino telefonate spontaneamente entusiastiche di quelle che erano state le «giornate alpine» di questa nostra città (si perdoni l’aggettivo a un modenese che l’ha sentita decisamente sua in anni molto difficili, che avevano messo a dura prova – prova assai ben superata – la salda identità torinese). Persone di cui avevo sempre ammirato la piemontese compostezza ammettevano di avere ceduto a entusiastiche acclamazioni e di avere lanciato grida di «viva l’Italia» al passaggio di storiche bandiere di guerra.

E’ poi accaduto che sul «Corriere della Sera» un osservatore non ottimista per natura, ma sicuramente sincero, Ernesto Galli della Loggia, venisse indotto a riflettere sull’entusiasmo e lo spirito identitario forte degli Inglesi, in occasione di un matrimonio reale, e degli Americani, alla notizia che un capo terrorista e pluriassassino era stato rintracciato e giustiziato dopo una caccia durata anni. Confrontando con questi comportamenti di popoli forti della loro identità nazionale e democratica gli atteggiamenti distratti e annoiati che gli era accaduto di osservare, in Italia, in occasione anche di solenni funerali di Stato, l’amico Ernesto si trovava a riflettere, con una nota di sincero accoramento, sulla reale natura di un Paese, il nostro, che «fatica moltissimo a trovarsi unito in un sentire collettivo, che non poggia su alcun patrimonio ricevuto di ritualità e di forme pubbliche consacrate». E amaramente concludeva definendo l’Italia «un Paese senza identità».

Una consuetudine ormai pluriennale di pubbliche cerimonie, fino all’ultima che ho ricordato, non poche di esse fortemente partecipate e sicuramente sincere, mi consentiva di giudicare che il giudizio finale del professor Galli della Loggia fosse per lo meno eccessivo e un tantino pessimista. Mi ha poi ulteriormente confortato un De Rita come sempre assai concreto nei suoi giudizi, fondati su una insuperabile conoscenza dell’Italia di provincia, di quella società «che evolve, che non diventa mai una sola, omogenea, coesa» ma che vive questa sua complessità come «una forza, non una debolezza»: una società «che resiste, una società solida, fondata sulla piccola impresa, sul sommerso, su famiglie strutturate, con un patrimonio immobiliare che è il più alto al mondo». Un’Italia che ho ben conosciuto, e di cui posso garantire l’esistenza, sulla base di un «viaggio in Italia» che mi ha portato, nel corso di alcuni anni, in tutte le province italiane, nessuna esclusa, insieme a due Presidenti.

Si potrà dire che questa «Italia che resiste» può ben essere reale, come l’Italia sinceramente patriottica di Torino, o quella profondamente cristiana di cui ho avuto testimonianza a Trieste, ma che l’una e l’altra possono coesistere con «l’Italia senza identità», e che alla fin fine la definizione migliore dell’Italia può essere, a scelta, quella di un Paese che tutto sommato non è da buttare, o quella di un’Italia insieme di meravigliose contraddizioni.

Ma, suvvia, forse non sono altrettanto ricche di contraddizioni anche quelle democrazie esemplari di cui si diceva all’inizio, certo non prive di tensioni e spaccature interne profonde, nella loro storia ma anche nel presente? Io ho molto amato l’America, e ancor più un’Inghilterra in cui ho trascorso una parte non piccola della mia vita e che sento mia. Ma sono pur sempre ricondotto anzitutto alla convinzione che «un Paese non basta»; rimanendo egualmente convinto che questo Paese in particolare che mi è toccato in sorte, un po’ per caso e un po’ per scelta, è, come diceva Churchill della democrazia, il peggiore che esiste – meno tutti gli altri. Almeno così pare a me.

Arrigo Levi

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