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Adriatico: il mare che insegue la Storia (Il Piccolo 06 giu)

di PREDRAG MATVEJEVIC

Il mare che si chiamava Golfo di Venezia era una volta il più celebre dei mari del Mediterraneo. Prima e dopo ebbe il nome di Adriatico. Non sempre. E con ciò potrebbe cominciare e concludersi la sua storia, e anche questo racconto.

Non è solo con gli occhi nostri che guardiamo e scopriamo il mare. Lo vediamo anche come lo hanno guardato gli altri, com’è nelle immagini e nei racconti che ci hanno lasciato. Veniamo a conoscerlo, e lo riconosciamo al tempo stesso. Conosciamo anche i mari che non vedremo mai, nei quali mai ci immergeremo. Le descrizioni che seguono non sono solo mie.

Non so in che modo guardavano il mare Adriatico quelli che giunsero per primi alle sue sponde: che ne sapevano degli altri mari? A questo racconto è estranea ogni pretesa storica. Sei secoli prima della nascita di Cristo, Ecateo di Mileto soggiornò sul versante orientale e su quello occidentale. Il ”padre della geografia” (così lo chiamano sempre) fece menzione della città di Adria, dalla quale il mare Adriatico avrebbe preso il suo primo nome. I Greci e i Romani lo chiamavano talvolta mare, tal’altra golfo: Ahriatike thalassa o Adriatikos kolpos o jonios kolpos, Hadriaticum Mare o Sinus Hadriaticus. Questo dualismo ne accompagnerà il destino.

Hadria (Atria, Adria) è annotata nelle carte geografiche, sulla sesta tabula di Tolomeo. Si trovava a sud dell’odierna Venezia, a nord di Ravenna. Né Eratostene né Strabone, che la menzionano, hanno chiarito le ragioni per cui fosse così importante da estendere il suo nome all’intero mare. E il mare celò questo mistero. L’antica Adria non esiste più da tempo, come non c’è più la vecchia Aquileia, detta una volta ”seconda Roma”. Né l’una né l’altra hanno sufficientemente attirato i paleologi. Aquileia è stata estromessa dalla storia. Gli elementi hanno separato Adria dal mare. I fiumi spostano le sponde: foce del Brenta e dell’Adige, del Po di Levante e di maistra, della Pila e di Tolle, di Goro e di Gnocca… Il fango invade le città di mare. Non hanno dappertutto un destino favorevole. Sulla sponda orientale dell’Adriatico sono precipitate in mare l’illirica Cissa (Kissa) sull’isola di Pago, parti della vecchia Issa su quella di Lissa, le mura di Risan, la greca Rhison, nelle bocche di Cattaro. Epidauro fu distrutta dai barbari. Le tracce di Salona sono state sepolte dall’incuria. Su queste rive si incrociavano le vie del sale e del grano, quelle dell’olio e del vino; le spezie e la seta venivano da Levante e dal Sud, l’ambra e lo stagno da Ponente e dal Nord. Un mare come questo suscitò l’invidia del mondo.

Erodoto conobbe Adrìas e ne attribuì la scoperta ai Focei. L’Adriatico antico fu più grande del presente. Secondo il Nuovo Testamento, questo mare si stendeva fino a Creta verso oriente, fino alla Sicilia verso occidente, bagnava le coste della Tunisia, giungeva fino a Malta dove, a leggere gli ”Atti degli Apostoli” (XXVII), San Paolo trovò rifugio dopo il naufragio nel suo itinerario apostolico dalla Terra Santa alla Città Eterna. Il mare Jonio era allora una parte dell’Adriatico, un suo golfo. Non sappiamo se l’imperatore Adriano abbia ricevuto il nome da Adria o dal mare Adriatico. Ancona ne era allora il porto principale, con il suo famoso molo sotto il monte Conero, che poteva stare alla pari degli antichi moli di Alessandra e del Pireo.

Il mare Adriatico veniva inoltre chiamato Superiore: Mare Superum. Il Tirreno era quello inferiore: Mare Inferum. Inferiore qualche volta era detto anche lo Jonio. Forse è da quell’epoca che si è conservata sull’Adriatico una certa idea di predominio o grandezza che non è estranea agli abitanti delle sue sponde. L’immagine di un mare superiore e grandioso, confermata dalla Sacra Scrittura e dalla fama di Adriano, dovrà poi confrontarsi con quella più modesta e angusta che gli hanno assegnato la storia e la sorte.

Non sappiamo queli immagini del mare avessero coloro che per primi si affacciarono all’Adriatico. Certo ne erano ammirati gli antichi Greci e i Romani, i loro predecessori e successori. Sulle sue sponde ci ha lasciato preziosi dati il navigante e geografo Pseudo Schillace, i cui intendimenti e la cui personalità sono rimasti per noi misteriosi perchè avrà voluto che le sue navigazioni in Adriatico si identificassero con i celebri peripli di Schillace di Carianda (Scylax Caryadensis)? Pomponio Mela, corografo dal nome sonante, rimase affascinato dall’immagine del nostro mare (”De Chorographia”, II, 55) ma, come molti altri, non trovò l’ispirazione per descriverne lo splendore. Plinio il Vecchio annotò, oltre al resto, le antiche denominazioni di molte città: da Trieste (Tergeste) fino a Otranto sul versante occidentale, da Zara (Iader) fino a Dulcigno (Olcinium) su quello orientale. Lo attirò la «costa illirica con più di mille isole, il basso fondale e le dolci correnti che penetrano fra le strette insenature» (111,151). Alcune di queste isole hanno ricevuto nomi benedetti: Kornati o Incoronate (che l’etimologia popolare ha collegato con corona e con cuore), Elafiti o Isole dei Cervi, Mljet (Meleda) che contiene la radice di miele (melite nessos). La supposizione che Ulisse le abbia perlustrate prima delle Sporadi e delle Cicladi, o addirittura quella che l’autore della Tempesta e del ”Mercante di Venezia” abbia soggiornato nell’Illiria, sono prova della facoltà di immaginazione di cui le divinità hanno dotato gli antichi abitatori di queste rive e i loro discendenti.

Sul versante occidentale, che è più piano, ci sono meno isole. Le Tremiti hanno più volte cambiato nome: un tempo si chiamavano Isole di Diomede, ora sono San Nicola, San Domino, Capraia, nonchè, sperduta in mezzo al mare, Pianosa, praticamente anonima. Dall’altr aparte dell’Appennino, a nord e a sud dell’Elba, gloriosa isola d’esilio, esistono un’altra Pianosa e un’altra Capraia: i nomi delle isole talvolta si ripetono, come succede nelle famiglie. E non ci sono solo bei nomi. Li danno più spesso quelli che arrivano sulle isole dal mare più che gli stessi isolani, i quali invece denominano le località che li circondano con più o meno grande amore o fortuna.

Ci sono molti scogli che non sono abitati, oppure che non hanno nome. Ce ne sono più di 600 sulla sponda orientale dell’Adriatico. Non so chi e con quale criterio abbia catalogato e distinto le rocce che spuntano dal mare, e ancora meno chi le abbia contate tutte: dicono che ce ne siano 426. È possibile che gli spostamenti tettonici della costa nel frattempo ne abbiano creato delle altre. Su carte speciali sono indicate le secche rocciose che affiorano dal mare: ce ne sarebbero più di 80 (non sono mai riuscito a stabilire dove ce ne sia una: su di esse però andavano a fracassarsi le prue e le colombe delle antiche galee).

Delle grotte nessuno sa il numero né vuol saperlo. Per lo più sono azzurre, verdi o scure. Ed è per questo che si chiamano Azzurra, Verde o Scura. È bene non avvicinarsi ad esse quando c’è vento e ci sono onde. La bora è più forte sulla sponda occidentale, che è più esposta di quella orientale, riparata dalle catene delle montagne. Le ondate raggiungono anche i cinque metri nelle vicinanze di Bari, presso Bar (Antibari o Antivari= sono invece di due volte inferiori. Orazio chiamava l’intero Adriatico ”tempestoso” (Hadria turbida) e ”adirato” (iracunda, III, 9), e anche sulla sponta opposta ci sono località dove la bora è forte: nel golfo di Trieste (la tramontana non diminuisce a Grado né a Venezia né ancora più giù), sotto i monti del Velebit, è fortissima a Senj (bora di Segna), nel canale di Zara presso Tustica, nel canale di brazza presso la Vrulja di Omis; lo scirocco è pericoloso vicino a Capo Planca (rt Ploce) e di fronte al promontorio di Ostro.

Dante ricorda i venti freddi e duri del Nordest e nel ”Purgatorio” (XXX, 87) li chiama ”venti schiavi”: venti slavi o venti di schiavitù? Il Mediterraneo lo lascia all’oblio.

Non si sa come sia stato determinato il confine fra il mare Adriatico e lo Jonio. I pescatori che incontravo raccontano che sull’orlo estremo degli Appennini, non lontano da Capo Santa Maria di Leuca a occidente, nei pressi del golfo di Valona (Vlorë) a oriente, si può notare una corrente lunga e ondulata, proprio là dove si incrociano e s’intersecano i due mari contigui. Non sono riuscito a vederla, navigavo di notte. È difficile riconoscere, quando si scende a sud, verso l’isola di Corfù, che lo Jonio è un altro mare. In modo simile, salpando dal golfo di Genova e passando dal mare Ligure a quello Tirreno, non sono mai riuscito a vedere dov’è esattamente la fine del primo e l’inizio del secondo.

Sulla costa occidentale il sole tramonta dietro alle montagne, su quella orientale affonda in mare. Neppure i tramondi sono uguali su tutte le sponde dell’Adriatico.

La costa occidentale, pur essendo più corta, è più ricca di quella orientale, dove, forse grazie alle più modeste condizioni di vita, il mare è più trasparente. L’Adriatico è «un Mediterraneo ridotto» ha annotato un famoso storiografo: porta in sé «tutte le contraddizioni mediterranee», ne concentra le componenti. Gli manca solo la sabbia del deserto (il deserto forse c’è in alcuni luoghi, su certe isole). Le vie per cui sono passati popoli, fedi e tesori, come è già stato detto, intersecano il nostro mare. La sponda orientale è scossa oggi di nuovo dai tormenti dell’entroterra. La sponda occidentali non ha migliori rapporti con il suo interno. Nella letteratura, tanto su uno quanto sull’altro versante, c’è sempre più nostalgia. Nella storia sempre meno speranza. La poesia, su entrambe le rive, canta i crepuscoli. L’immagine dell’Adriatico sembra spaccata.

Qui la nostra storia s’interrompe. Finisce questo breve viaggio attraverso la Storia.

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