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12 lug – Hansen: Trieste 13 luglio, cautele e prospettive

di Patrizia C. Hansen, direttrice di "Difesa Adriatica"

Ad oltre sessant’anni dall’esodo, e profondamente mutata la geo-politica dei territori investiti allora dal dramma del conflitto, delle pulizie etniche e dei regimi totalitari, il confine orientale si conferma ancora ipersensibile e mostra di conservare alcune profonde ferite non chiuse che tuttora ai nostri giorni, e comprensibilmente, condizionano la percezione del tempo e degli eventi.

Dovremmo forse chiederci in prima battuta perché quelle ferite non siano ancora rimarginate, o almeno meno dolorose. La storia, si sa, richiede tempi lunghi e la sua elaborazione presuppone un distacco ed una libertà di indagine che il dolore esperito dalle vittime normalmente non può concepire. Ciò vale naturalmente per tutte le forme di violenza che in ogni parte del mondo si sono manifestate nel corso del Novecento: e soltanto in questo tempo si vanno chiarendo la dimensione e l’efferatezza del disegno di espropriazione e di repressione tracciato dal regime comunista di Tito ai danni della popolazione italiana autoctona della Venezia Giulia e di Zara, che una consolidata interpretazione “ideologica” della storia per decenni ha liquidato come trascurabile e comprensibile conseguenza della politica attuata dal fascismo nei confronti delle minoranze slave. 

La marginalità cui gli eccidi delle Foibe e l’esodo degli italiani autoctoni dalla fine del conflitto sino al 1954 ed oltre, sono stati condannati dalla storiografia e dalla pubblicistica nazionali, espunti dal dibattito pubblico e dunque dalla coscienza del Paese, hanno fatto sì che quella materia intrisa di sangue e di ingiustizie sia giunta sino a noi pressoché integra, solidificata e non elaborata, cristallizzata e non doverosamente accolta. Mentre tra gli anni Ottanta e Novanta i regimi totalitari dell’Est europeo si disfacevano in una rapida reazione a catena, resisteva per almeno un altro decennio (e sopravvive per nicchie irriducibili) la sovrastruttura ideologica che ha fornito alle pesantissime responsabilità del comunismo l’alibi della giustizia sociale e del riscatto nazionale. E il silenzio e l’indifferenza della nazione nei confronti delle sofferenze degli esuli hanno sedimentato nei loro animi delusione e amarezza ed alimentato incessantemente un desiderio, certo legittimo, di vedersi pienamente e mai abbastanza riconosciuti dalla patria per la quale hanno perduto beni materiali e prospettive esistenziali.

Per oltre sessant’anni gli storici e l’opinione pubblica slovena e croata hanno negato l’esistenza di un’italianità adriatica di antico insediamento storico con gli strumenti della repressione di regime e della reinvenzione di una storia inesistente, e dunque hanno negato la natura vera dell’esodo quale oggi sembra venga riconosciuta: non un esodo determinato da libere scelte di persone libere, ma dalla persecuzione pianificata dell’intera popolazione italiana, spogliata dei diritti e dei beni e delle vite. Da una parte, dunque, la sofferenza delle vittime spiega la loro perplessità se non la contrarietà ad un omaggio interpretato come un ripiego, considerando che nella percezione di molti ambienti triestini e giuliani la Foiba di Basovizza rappresenta al massimo grado la tragedia dei territori orientali, ne è anzi la quintessenza: di fronte ad essa il Monumento eretto nel 2004 a ricordo dell’esilio appare quasi come una più modesta eco. Per altro verso, la negazione da parte dei persecutori dell’abnorme realtà dell’esodo dona significato al gesto che i Presidenti di Slovenia e di Croazia si accingono a compiere dinnanzi al Monumento all’Esodo eretto a Trieste, quello stesso che in questa occasione viene da taluni considerato secondario quando ebbe il massimo consenso al momento della sua realizzazione.

La sosta che i Presidenti Türk e Josipovic dovranno compiere con il Capo dello Stato italiano assume una valenza inedita che non può e non deve essere sottostimata: dovrebbe costituire la prima forma di riconoscimento, la prima evidente assunzione di responsabilità, da parte di coloro che si dichiarano eredi della ex Jugoslavia, della persecuzione dell’elemento italiano e della fuga dai territori adriatici dei suoi antichi e prevalenti abitanti, che ne avevano conformato nei secoli l’identità culturale e civile. Non sembra cosa da poco, se si considera, fra l’altro, che nei libri di testo in uso nelle scuole slovene e croate non v’è traccia di quella storia e la plurisecolare presenza di Venezia nell’Adriatico orientale viene presentata come un’occupazione straniera di territori slavi ab antiquo.

Si dirà trattarsi di un compromesso, di un cedimento aggravato dal ricordo dell’incendio del «Narodni Dom» la cui storia, come sappiamo, è tutt’altra ed è riproposta in ogni sede nella versione codificata dalla pubblicistica nazionalista slovena prima e jugoslava comunista poi e recepita acriticamente anche nel nostro Paese. Ma, a fronte dell’assenso dato dai massimi rappresentanti di Slovenia e Croazia a condividere con il Presidente Napolitano la memoria dell’esodo giuliano e dalmato, ci sembrerebbe ingiusto, moralmente e storicamente, attribuire a questo esito raggiunto da una faticosa mediazione diplomatica una connotazione esclusivamente negativa. È evidente che la ricerca del punto di equilibrio migliore possibile, o se si vuole meno precario possibile, implica la disponibilità delle parti ad esporsi: è il rischio della diplomazia come della politica, ancora più elevato quando, come in questo caso, si muovono sul terreno della memoria contesa e delle ferite non chiuse. Ma più delle polemiche contingenti e pertanto transitorie, varrà il peso specifico che questo evento, nella forma che sembra ormai aver assunto, avrà sulla riflessione storica: è su questo piano che la mediazione raggiunta diventa scommessa ragionata, e sta alla onesta ricerca storiografica sapersi avvalere dei varchi che i cauti passi delle cancellerie aprono in questo caso spinosissimo.

Se, forse con eccessiva enfasi, il Novecento è stato definito da Hobsbawn «il secolo breve», non altrettanto brevi, come si vede, saranno i tempi necessari per lenire il dolore dei guasti procurati dai totalitarismi sui confini e sugli animi. Bisogna avere la lucidità di comprendere che nessuna integrale riparazione dei torti subìti nel passato è realisticamente possibile, ma tantomeno può soddisfare se si esaurisce in uno slogan o in un rifiuto che preclude qualsivoglia futuro.  La mediazione ha sempre un retrogusto amaro, ma oggettivamente non si vede quale altra strada si possa intraprendere per restituire a passi successivi, com’è ormai indispensabile sul piano storiografico e diremmo etico, al tragico quadro dell’esodo e degli eccidi pianificati quella drammatica evidenza che ora dovrà farsi, finalmente, storia e coscienza.

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