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70 anni fa l’Italia entrava in guerra (Il Piccolo 10 giu)

di RAOUL PUPO

10 giugno 1940, settant’anni fa, l’Italia entra in guerra. In fondo, perché no? La Francia sta per gettare la spugna, la Germania ha vinto la ripetizione della grande guerra europea, nessuno dubita che l’Inghilterra tratterà con i tedeschi per garantire l’impero ed anche gli americani, per dissuadere Mussolini dall’infliggere la pugnalata alla schiena dei cugini d’Oltralpe, gli promettono comunque un posto all’imminente conferenza della pace.

In Italia, anche le personalità diffidenti nei confronti della Germania, come il ministro degli esteri Ciano e lo stesso monarca, si ricredono difronte ai trionfi delle armate tedesche e cominciano a pensare che forse anche questa volta il Duce ha azzeccato la scommessa. E invece no, chi ha pensato che gli inglesi fossero pronti ad accordarsi con Hitler non ha capito nulla della strategia britannica degli ultimi due secoli, determinata in ogni caso ad impedire che un’altra potenza mettesse le mani su tutte le risorse del Vecchio continente, pericolosamente vicino alle scogliere di Dover.

Dunque, la guerra va avanti, e per l’Italia son guai. Il fatto è, che dopo due decenni di retorica bellicista sparsa a piene mani, il Paese è quasi disarmato. L’esercito ha appena avviato una riforma di struttura che lo renderà praticamente inutilizzabile per tre anni, tant’è che il duce ha dovuto garantire allo stato maggioreche la pace durerà fino al 1942. Del resto, non prima del ’42 saranno pronti anche gli armamenti di nuova generazione, vale a dire comparabili a quelli che tedeschi e inglesi già usano sui campi di battaglia.

Come se non bastasse, i generali sono vecchi e conservatori, convinti che le unità corazzate e motorizzate verranno usate appena nella guerra seguente, l’addestramento delle truppe è scarso, ad eccezione di pochi reparti di élite, la marina non concepisce l’idea di combatterre di notte ed i piloti dell’aereonautica sono inarrivabili nelle acrobazie, ma non allenati al tiro al bersaglio. In circostanze del genere il valore individuale, che mai verrà meno, è semplicemente irrilevante ai fini del risultato.

Che le cose stiano così lo sanno tutti, a parte gli italiani imbevuti della propaganda del regime. E difatti, nel 1940 l’Italia fascista si trova nella condizione esattamente opposta a quella in cui si era trovata nel 1914 l’Italietta liberale. Allora, durante i mesi di neutralità le potenze europee avevano fatto a gara nel corteggiare il governo di Roma, offrendo ricchi compensi in cambio del suo intervento, o anche soltanto della sua astensione dal conflitto. Naturalmente, avevano vinto gli alleati, che potevano offrire assai di più, posto che promettevano terre dei loro nemici.

Venticinque anni dopo, durante la non belligeranza cui Mussolini si è dovuto acconciare, l’Italia non la cerca nessuno. I comandi tedeschi sperano che l’Italia se ne resti con le armi al piede, per non doverla tirare fuori dai guai, gli anglo-francesi sono tentati di lanciare una guerra preventiva contro un possibile avversario di domani, la cui debolezza appare decisamente invitante.

Ma come ha fatto l’Italia a cacciarsi in un tale vicolo cieco? Per inseguire i sogni di gloria imperiale Mussolini si è avvicinato alla Germania, con il bel risultato di dover inghiottire l’Anschluss e di buttare al vento i frutti più preziosi di Vittorio Veneto. La comunanza ideologica cementata dalla guerra di Spagna ha stretto ancor più i legami tra fascismo e nazismo e Mussolini ha preso la storica decisione di agganciare l’Italia al revisionismo tedesco. Come ultimo atto del suicidio della politica estera italiana, è arrivato il patto d’acciaio, con il quale il governo di Roma si è obbligato ad un’alleanza offensiva con la Germania, ponendosi di fatto al suo rimorchio. Gli storici, increduli, cercano ancora di esplorare i meandri di demenza di un tale gesto diplomatico.

A quel punto, l’Italia non ha più nulla da scegliere, può solo aspettare. Lo sa anche il duce che, poco romanamente, spera di fare come Bertoldo (il paragone è suo), rimandando il più possibile il giorno della resa dei conti. Mussolini sa anche quello che rischia, e che fa rischiare al Paese; ma, come lui stesso dice, l’Italia può sopravvivere anche senza andare in guerra, il fascismo no. Dunque, il popolo italiano deve correre alle armi. Dovrebbe anche vincere ma questo, onestamente, è pretender troppo. Difatti l’Italia perderà, e malamente.

Il fascismo verrà travolto dalla sconfitta, ma rischierà di trascinare con sé lo Stato e la nazione tutta. Al confine orientale lo sappiamo molto bene.

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