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27 set – Mons. Crepaldi: vorrei Trieste simbolo di riconciliazione

ROMA Si insedierà quale vescovo di Trieste il 4 ottobre, in San Giusto. Ma già fra qualche giorno arriverà in città. Portando con sé gli oltre vent'anni di vita trascorsi in Vaticano. Tornato da Cortina, dove lo scorso weekend su invito del «vecchio amico» Maurizio Sacconi ha illustrato alla platea del Pdl l'enciclica Caritas in Veritate alla cui redazione ha portato un contributo rilevante, Giampaolo Crepaldi trascorre così le sue ultime ore in Trastevere. Ecco pronti per il trasloco alcuni dei mobili del suo alloggio di piazza San Calisto – «proprio tra l'appartamento del cardinale Paul Poupard e quello del cardinale Roger Etchegaray» – in un ultimo piano del grandioso complesso voluto da Pio XI dove oggi hanno sede alcuni dei dicasteri vaticani, compreso quel Pontificio Consiglio della giustizia e della pace di cui dal 2001 è segretario. Ecco le carte che teneva nel suo ufficio, in quello stesso palazzo dai corridoi colorati delle tele donate dai pittori di via Margutta. Ecco le decine di volumi che lui stesso ha scritto… Oggetti, frammenti di esistenza e di affetti. Come la massiccia croce che Crepaldi porta al petto: «Per realizzarla in occasione della mia ordinazione a vescovo la mamma mi donò tutto l'oro che possedeva». I fedeli domenica prossima la potranno osservare: «E vedranno anche che il vescovo ha il naso storto, per meriti – o demeriti – calcistici: in seminario, ragazzino, giocavo da ala sinistra. Con gli incidenti che ne conseguivano».

Partiamo da qui: la sua infanzia, a Pettorazza di Rovigo.

Eravamo quattro fratelli, famiglia di agricoltori ma un po' particolare: papà suonava il violino, lo zio il pianoforte, una grande passione per la musica… Anch’io strimpello il piano.

E la vocazione?

Difficile dire… Ci sono fattori ambientali, credo intervenga anche lo zampino di Dio ma a 11, 12 anni – l'età in cui entrai in seminario – è arduo percepirlo. Sono nato in una parrocchia dove la vita cristiana era determinante, gioiosa e coinvolgente.

L’ordinazione, i primi incarichi… Ma com’è che un giovane prete di provincia viene chiamato all’Ufficio episcopale per i problemi sociali e del lavoro in Vaticano?

Non ne ho idea. Un giorno fui inviato a un incontro a Roma al posto del delegato regionale che non poteva parteciparvi. Non so cosa abbia visto in me il direttore nazionale. Tempo dopo andai in Curia a Rovigo – guidavo già una piccola parrocchia – e il vescovo mi mostrò una lettera della Cei: «Ti vogliono direttore dell'Ufficio». Mi diede una settimana per pensarci. Ma dopo tre giorni «ho già risposto io di sì», concluse.

Era il 1986: conosceva già gli ambienti vaticani?

Per nulla. Ho iniziato a lavorare tanto. Credo però che tutto questo lavoro abbia portato dei frutti. Innanzitutto bisognava far passare l’attenzione della Chiesa, ancora prevalentemente orientata al mondo operaio, a una sensibilità più complessiva alle problematiche sociali. Ho guidato questo processo fino a pubblicare un direttorio di pastorale sociale per la Chiesa italiana. La seconda intuizione è stata il rilanciare la dottrina sociale della Chiesa, con la forte spinta di Giovanni Paolo II. La terza linea interessante è consistita nell’avere investito nel laicato, dentro una cornice di collaborazione tra associazioni.

In principio le mancò il contatto con la parrocchia?

Fu un momento di discontinuità un po’ traumatica, perché io in precedenza in parrocchia vivevo, anche se negli anni Settanta avevo studiato all’Università di Bologna, vivendo un impatto sconvolgente che mi aveva permesso di confrontarmi con la verità della realtà.

Tornando alla dottrina sociale della Chiesa, le sue parole sottolineano la continuità sostanziale del magistero di Benedetto XVI – e della sua ultima enciclica – con quello del suo predecessore.

Chi parla di discontinuità fa una pessima ermeneutica. C’è stato uno sviluppo normalissimo giacché in vent'anni sono cambiate molte cose. Primo: oggi affrontiamo la globalizzazione. Secondo: si pone il tema della grande crisi economico-finanziaria che porta con sé l'esigenza di una nuova governance internazionale. Terzo: crollati i grandi blocchi politici ecco lo sblocco delle religioni sulla scena pubblica, assieme all’emergere di un laicismo militante molto agguerrito.

Lei ha detto di recente che si sta perdendo l’idea del lavoro come vocazione, sottolineandone all’opposto la rilevanza dell’aspetto immateriale. L’uscita dalla crisi passa anche per il recupero di un nuovo valore al lavoro?

È il punto decisivo. Bisogna abbandonare il concetto riduttivo di ”posto di lavoro” e ricominciare a ragionare sul significato che il lavoro riveste nella vita di una persona, la quale deve trovare una propria realizzazione. Le politiche vanno adeguate a questa prospettiva più ampia. Perché dove si consuma la risorsa del senso – e la nostra è una società in crisi di senso – prima o poi le persone producono meno. E i costi economici diventano enormi.

Come conciliare questa visione con operazioni come quelle messe in campo dal ministro Brunetta nel nome della trasparenza e dell’efficienza?

Da tanti anni sono in Vaticano, seguo il mondo intero, ho avuto poco tempo per le vicende del governo italiano. Certo le posizioni più avanzate e avvedute di cui parlavo vanno applicate – non so come, non spetta a me dirlo – anche in relazione alle situazioni cui si riferiva la domanda.

Veniamo a Trieste. Lei ha annunciato di volere aprire la Chiesa locale al mondo del lavoro: la società, insomma. Come concretizzare questo legame?

Chiesa e città sono due realtà distinte, ma guai se fossero separate. Bisogna continuare quello che di buono c’è già. Ho l’impressione che la Chiesa si sia attrezzata per un rapporto molto positivo con la città. E che la città guardi con attenzione, rispetto e affetto a ciò che la Chiesa fa a Trieste.

Il vescovo Ravignani salutando il suo arrivo ha sottolineato l'esigenza di un presule con una «forte capacità di inserirsi in un contesto storico e attuale che non sono dei più facili».

Tutti mi dicono che Trieste è una città bella e difficile. Non mi piace l’aggettivo difficile: lo usano quasi per intimorirti. Certo la città ha una storia particolare e peculiare, e qualche ferita legata alle vicende drammatiche del secolo scorso. È una città di confine.

Un confine che non c’è più.

Esatto. La parola confine richiama alla memoria il confronto e lo scontro tra alterità, ma ”cum-finis” significa proprio il contrario: con lo stesso fine. Ecco, vado a Trieste con questo spirito, per farne se possibile l’emblema della riconciliazione. Perché Trieste non può diventare un grande esperimento da proporre agli altri, non solo nel senso cristiano ma anche culturale e civico? Questa è la sua vocazione. I disastri e le ferite possono diventare delle opportunità. Se riuscirò a giocare questa carta io per primo e a farla giocare agli altri sarò contento di essere stato vescovo a Trieste.

Nell’anno e mezzo trascorso tra le dimissioni di Ravignani e la sua nomina si è dapprima parlato del ritardo nell’avvicendamento; in seguito sono circolate le prime indiscrezioni sui nomi, tra i quali il suo; infine si è sussurrato di una presunta sua resistenza alla destinazione triestina.

La prima vittima delle chiacchiere romane sono stato io: erano voci di cui soffrivo per l’incertezza che mi creavano. Quando i miei superiori me ne hanno parlato però ho accettato subito. Smentisco di avere tergiversato o rifiutato.

C’erano altre possibili sedi in ballo?

Tutto è possibile… Era disponibile la Diocesi di Trieste: ho preferito venire lì. Ho comunque accettato la nomina a inizio maggio. L’annuncio è stato posticipato solo per farlo coincidere con la presentazione dell’enciclica.

C’è qualcosa nell’organizzazione della Curia che intende modificare?

La direttiva è andare all’essenziale. Non è istituendo una nuova commissione di studio che cresciamo come Chiesa e offriamo un buon servizio. Il problema non è il moltiplicare le iniziative, ma il riscoprire il senso – rinnovandolo – delle cose ordinarie.

Solo 30 o 40 anni fa la Chiesa aveva una sostanziale dimensione maggioritaria. Lei immagina nella trasformazione del corpo sociale italiano, occidentale in realtà, la consegna di una sorta di destino del resto d’Israele?

Non credo alla teoria di una Chiesa italiana ridotta a piccolo gregge in un mare di non credenti o agnostici. Sono certo che la realtà del cristianesimo in Italia resti ampia, diffusa e popolare. Questo non vuol dire che dobbiamo stare tranquilli. Il futuro del cristianesimo in Italia dipende da molte cose, innanzitutto dalla qualificazione dell'esperienza nella fede. E bisogna spingere l’acceleratore sul fronte del laicato, chiedendo ai laici non tanto di fare di più, ma di essere di più. In termini qualitativi.

Ma lei riesce a immaginare un Paese dove tra una decina d’anni possano togliere il crocefisso dalle aule di tribunale o dalle scuole?

Una salutare provocazione… Ma dipende un po’ da noi, e da dove vuole andare questo Paese: se pensa di potercela fare senza questa sua storia, che è cristiana, se responsabilmente e laicamente ritiene che essa sia un patrimonio per il bene dell’Italia, e non un peso. Per questo la Chiesa porta avanti delle battaglie precise sull’identità sessuale, sulla verità della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, sulla giustizia e la solidarietà, sul rispetto per la vita nascente. Benedetto XVI nella Caritas in Veritate dice che quella sociale è oggi questione radicalmente antropologica. Dobbiamo decidere se l’uomo è un prodotto; oppure se è un progetto di Dio, da rispettare e amare.

Una partita che vale anche per la questione ambientale, di cui lei si è occupato.

Dopo la caduta del socialismo reale, un certo ecologismo costituisce la grande ideologia del nostro tempo. E presuppone una visione riduttiva della realtà dell'uomo, contrapposto all'ambiente naturale. Ma rispettare l’ambiente significa rispettare l’uomo e viceversa. Laddove c’è degrado sociale c’è degrado ambientale e viceversa.

Benedetto XVI, giorni fa, dinanzi a vescovi e cardinali ha sottolineato che nella Chiesa così come nella società molti lavorano per se stessi e non per la comunità. Come legge queste affermazioni alla luce del caso Boffo e delle tensioni fortissime che hanno attraversato di recente il rapporto Chiesa-politica?

Dietrologie di cui non so nulla. Quanto al Papa, ha detto una cosa semplice: la Chiesa è santa, gli uomini sono peccatori e devono confessarsi possibilmente ogni settimana. Tra le verità disarmanti ma molto vere c’è anche il peccato di coloro tra gli ecclesiastici che invece di servire la Chiesa la sfruttano per se stessi. Parlando di peccato e di confessione la Chiesa fa una grande affermazione di fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di scelta. Dicevo prima che non c’è bisogno di commissioni, ma di riscoprire quello che già esiste. Anche un discorso legato al concetto di peccato può diventare rilevantissimo sul piano antropologico e culturale: ecco, io vorrei che i miei preti mi seguissero su questo fronte.

 

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