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25 mag – Anche gli istriani nella storia dei Moratti

In 102 anni di storia, l’Inter finora è stata di proprietà della famiglia Moratti per 28. Poco più di un quarto, quindi. Ma a una densità di vittorie così alta rispetto a quella di chi è venuto prima e in mezzo, da spiegare perché sia sempre più difficile distinguere tra il club e la famiglia. Dei 18 scudetti vinti, quasi la metà sono arrivati con la presidenza di Angelo (i tre di Herrera del 1963, ’65 e ’66) e del figlio Massimo (i 5 di questi 5 anni). La metà esatta, invece sono le Coppe Italia (3 su 6). E 3 su 4 le Supercoppe italiane. Ma quasi tutti i trofei internazionali (tre coppe dei Campioni, due Intercontinentali e una delle 3 coppe Uefa) portano lo stesso cognome. E una curiosità che va ben oltre la coincidenza: a parte la Uefa vinta nel 1998 con Gigi Simoni in panchina, tutte le coppe morattiane sono state vinte da due allenatori stranieri: HH, appunto, e José Mourinho. Sarà un caso, ma la Grande Inter degli anni 60 è stata la prima squadra (insieme al Milan con Germano) a schierare un giocatore di colore in serie A: Jair. Quella del terzo millennio, invece, di italiani va già bene se ne ha uno che gioca qualche spezzone di partita (Balotelli, Materazzi, Santon).

Un segno di apertura al mondo che ha sempre distinto la famiglia Moratti. Angelo divenne ricco oltre l’immaginabile nel dopoguerra, capendo prima di altri che la fine del colonialismo avrebbe aperto giganteschi spazi dove si poteva infilare chi volesse ripartire dal petrolio del Medio Oriente. Convinto il senatore Falck a finanziarlo, fece smontare e caricare su navi cargo una raffineria dismessa del Texas. Poi la fece rimontare in Sicilia (molto più strategica di Genova) a degli ingegneri istriani scovati in un qualche campo profughi. A quel punto, comprare l’Inter (scoperta grazie alla moglie Erminia, ragazza interistissima del Ticinese che si era trasferita a Roma con lui e che lo portò allo stadio di Testaccio a vedere i nerazzurri) fu uno scherzo dal punto di vista economico. Meno, molto meno, sotto l’aspetto dei risultati. Che ci misero 8 anni ad arrivare: dal 1955 al primo scudetto di Herrera. Non mancarono ironie feroci. Raccontava Gianni Brera che «l’onorevole Merzagora, a un banchetto in suo onore, lo aveva molto esaltato come “uomo nuovo del petrolio”, ma sulla sua presidenza all’Inter aveva ironizzato, lasciandolo assai male. Quasi tutti si accorsero che Moratti si era fatto pallido per l’ira e che aveva saputo cavarsela con un sorriso alquanto amaro». Per il figlio Massimo, gli anni difficili della sua presidenza devono essere stati un déjà vu. Sono molte le foto d’epoca che ritraggono Angelo Moratti negli stadi italiani, accompagnato da due ragazzi bruni ed eleganti: Massimo, appunto, e il fratello maggiore Gianmarco. Per lo stesso Brera e per Herrera era lui l’erede designato alla guida dell’Inter. Ma il vecchio Angelo era contrario: «Il Gianmarco è un ragazzo serio, deve lavorare».

Nella notte di Madrid, quando un inviato televisivo ha chiesto a Massimo Moratti se quella Champions League ripagasse anche di tanti anni di sconfitte, il presidente dell’Inter si è spazientito (evento doppiamente clamoroso, considerandone l’abituale gentilezza e soprattutto il momento di festa) e ha mollato lì l’intervistatore, spiegandogli irato che la ragione delle sconfitte la poteva chiedere ai giudici di Napoli. Un gesto — se vogliamo— molto più da Angelo che da Moratti, il che spiega (da un lato) quanto per la famiglia l’Inter sia un affare altrettanto serio del petrolio. Dall’altro, perché l’Inter abbia iniziato a vincere in maniera così seriale. E visto che siamo in tema di serialità: dall’aereo che ha riportato l’Inter in Italia, la Champions League è scesa tra le mani del capitano Javier Zanetti e quelle di Angelomario Moratti, figlio maggiore di Massimo e vicepresidente dell’Inter. Nel Cda nerazzurro c’è anche il fratello Giovanni: «Il maggiore sarebbe bravissimo a guidare l’Inter», dice di loro il padre. «È saggio, attento, approfondisce ogni aspetto delle cose, ma è anche amante del rischio. Il secondo è un istintivo. Ma mi auguro che non vogliano mai prendere il mio posto: è una tale dispersione di denaro e fatica. E poi consuma. A lungo andare il calcio ti consuma». Accetteranno il consiglio? (No, è ovvio che no).

Tommaso Pellizzari sul Corriere della Sera del 24 maggio 2010

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