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24 set – L’intervento di Toth al Raduno dei Dalmati

L'intervento del presidenta nazionale ANVGD Lucio Toth al 56° raduno dei Dalmati a Trieste

 

DALMAZIA: IL REGNO IMMAGINARIO DALLA VOLONTA' ALLA RAPPRESENTAZIONE

 

1)  In epoca romana che cosa fosse la “Dalmatia” lo sapevano: una provincia dell’impero. Quantunque anche allora le sue frontiere variassero nel tempo. Ma almeno giuridicamente era un punto fermo. Si sapeva sempre dove cominciava e dove finiva. Anche in età bizantina la Dalmazia conserva una sua identità amministrativa.  

E proprio dalla sfaldatura progressiva del bizantino Thema Dalmatìas nasce il Regno di Dalmazia, quando il papa Gregorio VII, in polemica con l’imperatore tedesco Enrico IV, inventa regni vari – come la Sardegna – e non sapendo come intitolare la corona da dare al principe croato Zvonimiro nel 1076, lo fa investire da un suo legato del titolo di Rex Croatiae et Dalmatiae. Incurante che da duecento anni il Dux Venetiarum si fregiasse del titolo di Dux Dalmatiae, conferitogli dall’imperatore romano d’Oriente, l’unico in punta di diritto che avesse il potere di farlo.

In definitiva nasce come regno immaginario, perché la sovranità effettiva sul territorio è spezzettata in tante sovranità parziali e temporanee, fluttuanti nello spazio e nel tempo. L’imperatore bizantino, il doge veneziano, il re di Croazia e poi di Ungheria, i re di Serbia e di Bosnia, i re di Napoli: tutti aspirano alle ricche città della costa, sedi di antichi vescovi, di monasteri potenti, di armatori audaci, di mercanti spregiudicati, gelose delle loro prerogative di autonomia, per cui si reggono come piace a loro. “Rex stetit ante fores, iurans prius urbis honores”. Così il re d’Ungheria deve accettare le condizioni di rispettare gli statuti del libero comune di Zara nell’anno del Signore 1107.

Un regno immaginario, sempre presente nell’araldica dei reami europei, ripreso in tutti i palazzi del governo e dei parlamenti di mezza Europa, da Venezia a Vienna, a Budapest, a Friburgo, a Bruxelles. Nella realtà inesistente. Espressione di volontà di potenza e di rappresentazione di qualcosa che non c’è e vorrebbe essere.

E così un po’ siamo anche noi. “Patria vera non ha chi da te è nato”. Dura sentenza quella del Tommaseo.

Perché questa è la verità che dobbiamo accettare: che chi nasce in Dalmazia può avere tante patrie. Quella italiana che abbiamo noi. Ma molti dalmati italiani cento anni fa avevano una patria austriaca. Difendevano la nostra lingua con fermezza, ma non negavano la loro lealtà all’impero degli Asburgo.

La nostra tradizione è certamente quella irredentista dei Colautti, dei  Bellotti  (morto in prigionia per le sue idee), dei Ziliotto, dei Krekich, dei Trigari, dei Ghiglianovich, dei Natali, dello stesso Baiamonti, dei volontari garibaldini e di quelli della prima guerra mondiale, colonne dei servizi di informazione italiani, condannati dalle corti marziali austriache come spie e traditori.

Ma non proprio tutti condividevano questi ideali. Si fosse fatto un sondaggio nel 1913, chissà che ne sarebbe uscito. Il poeta Sabalich, con la sua ironia divertita scherzava in vernacolo dalmato-veneto – la lingua degli zaratini di allora – di queste ansie filo-italiane e delle paure degli austriacanti. Se si insegnerà il dialetto a Trieste andrebbe benissimo. E’ il Trilussa e il Porta della Dalmazia.

Uno nato in Dalmazia può avere una patria croata. Adesso, dopo due pulizie etniche in cinquant’anni, quasi tutti i dalmati si sentono croati. Che più di così non si può!

Ma può sentirsi anche serbo, un dalmata. E molti serbi cercano adesso di tornare nelle loro case sul mare. Ammesso che la casa sia ancora in piedi e che qualche volonteroso non l’abbia fatta saltare in aria negli anni della “guerra patriottica”, la seconda liberazione (1991-1996).

Perché altri di patria ne hanno un’altra ancora: la Iugoslavia di Tito e di liberazione per loro ce n’è una sola, quella del 1944-45, con le foibe in Istria e nel Carso e le fosse comuni un po’ ovunque, e gli annegamenti in mare, dove tanti dalmati italiani sono scomparsi.

2) Molti in Dalmazia pensano ancora oggi che la nazionalità sia un fatto di sangue, facendo una strana identificazione razziale tra antichi illiri e croati arrivati nel VII secolo dopo Cristo. Da questa impostazione nasce la versione secondo la quale la Roma antica e la Venezia medievale sarebbero potenze occupanti e colonialiste, come l’Italia fascista del 1941! E che noi, italiani di Dalmazia, saremmo soltanto dei “croati italofoni”, traditori e collaborazionisti, come si legge nelle sentenze iugoslave pronunciate per fucilarci o mandarci nel gulag.

Perché alla luce dei documenti degli archivi, delle biblioteche, delle curie ecclesiastiche, risulta innegabile che nelle nostre città si sia usata per secoli la lingua italiana, ben da prima che la Repubblica di Venezia vi si insediasse definitivamente nel 1409. E allora bisogna tirar fuori la tesi che non siamo italiani – visti tanti nostri cognomi che italiani non sono – ma soltanto “italofoni”.

E’ la stessa distinzione – badate bene – che il fascismo adottò per i cosiddetti “alloglotti” dell’Alto Adige e della Venezia Giulia. Gente che parlava tedesco,  sloveno o croato mentre avrebbe dovuto parlare italiano. E’ la premessa pseudo-scientifica della discriminazione e della negazione di identità.

Come se la lingua, le canzoni, le filastrocche infantili, i canti delle processioni non fossero niente! Sono l’anima di un popolo. La forma del suo pensiero, della comunicazione agli altri dei propri sentimenti, delle proprie idee, delle proprie emozioni. Il Logos, la parola, il verbo. E che altro! Per noi, di cultura latina, la lingua è tutto. Ed è sull’unità di cultura e di lingua che si è fondata fin dalle origini l’universalità della cultura romana e latina, base dell’identità culturale dell’Europa e dell’Occidente.

Più un popolo è avanzato più riconosce il valore della romanizzazione, come gli inglesi, i belgi, gli olandesi, anche quando non parlano una lingua neolatina. Perché è su quella base comune che si è costruita l’unità del continente, il bacino di diffusione del cristianesimo, con i suoi valori di uguaglianza, di fraternità, di libertà personale. Perché è da quella sorgente che nasce l’umanesimo giuridico che fa della persona il fine e il centro della società organizzata e pone a sua tutela una legge oggettiva, da tutti riconoscibile, non per vincoli di etnia, ma per scelta di civiltà.

Negare la radice greco-romana della civiltà occidentale significa negarne l’esistenza. E di questa eredità, noi dalmati italiani, siamo la testimonianza viva e non lasceremo che si disperda.

3) Perché la nostra testimonianza ha un valore universale, proprio per l’uomo di oggi, coinvolto in un processo di trasformazione così rapido da minacciarne la centralità privandolo di ogni asse di riferimento con se stesso e con gli altri, e quindi incapace di un rapporto vero con l’altro. La perdita di identità è la negazione di ogni dialogo per mancanza di soggetti capaci di dialogare.

La nostra vicenda e l’insegnamento che se ne trae non rappresentano un angolo marginale della storia europea, una storia locale tra le tante che hanno segnato il Novecento. Sono al contrario un crocevia di problemi attualissimi come:

1 – la definizione di una identità nazionale italiana in rapporto a una comune identità europea, passaggio essenziale per costruire un’Europa unita e cosciente della sua unità e del suo ruolo;

2 – la possibilità di integrare le patrie nazionali in una patria comunitaria, da amare con lo stesso amore e lo stesso senso del dovere;

3 – la capacità di integrazione nelle nazioni europee dei crescenti flussi di immigrazione, che vanno regolati per non esserne sommersi, ma che vanno assimilati con coraggio e strategie culturali tempestive.

Noi siamo stati un esempio straordinario di integrazione e di condivisione di valori comuni.

Sulle nostre coste, nelle nostre città, veneti, friulani, romagnoli, liguri si sono assimilati con albanesi, boemi, tedeschi, ungheresi, in un amalgama con la popolazione croata e serba dell’entroterra, radicandosi sull’antica stratificazione dinarico-illirica. Una comune cultura secolare dalmato-veneta ha creato una Koinè caratteristica e unica, che non era meticciato multiculturale, perché aveva una identità precisa, una variante originale dell’identità italiana. Da essa sono usciti ingegni di grande valore, dal medio evo ai nostri giorni, in tutti i campi dell’attività umana, dalle scienze alle arti, alla musica.

E il nostro mare, con i suoi promontori e le sue isole, i suoi venti e i suoi fortunali, ha dato ai dalmati quell’agilità dell’ingegno e quella versatilità creativa che hanno prodotto la grande architettura dell’epoca romana, le basiliche bizantine, le cattedrali romaniche del medio evo, la trasmutazione degli stili dal tardo gotico veneziano al Rinascimento.

E da questo mare e dalla pluralità delle componenti etniche, unificate dal diritto e dalla cittadinanza, ci è venuto quel culto della libertà personale e cittadina che ha caratterizzato la nostra storia. Non bene pro toto libertas venditur auro era il motto della Repubblica di Ragusa. E l’insegna scolpita sulle porte della città di Veglia era Aurea Venetorum Libertas. Tale era l’identificazione con la Serenissima. Un’identificazione non imposta dall’esterno. Ma voluta e sentita dai cittadini. Durata nei secoli decisivi della formazione dell’Europa moderna.

Ti con nu, nu con ti. Il dalmata non conosce le mezze misure. Quando si mette da una parte ci resta fino in fondo. Costi quel che costi. I nostri padri lo hanno dimostrato con la loro vita. E anche se si perde si è vinto lo stesso. Perché chi salva l’onore è capace di una vita nuova.

4) Anche come esuli lo abbiamo dimostrato, conquistando posizioni di prestigio in un’Italia che non ci capiva e non ha fatto in tempo a metterci in un angolo solo perché siamo stati più rapidi noi, a imporci e farci rispettare con le nostre qualità.

Noi non siamo vittime degli eventi. Siamo testimoni del nostro coraggio e del nostro idealismo. Abbiamo dimostrato di saper buttare a mare interessi e beni, di saper gettare l’anima oltre l’ostacolo, difendendo la nostre città e la nostra italianità fino in fondo.

Per questo non temiamo il futuro.

Sarà un compito arduo ricreare un clima di conciliazione nell’Adriatico orientale. Ma si può fare!

Non coltiveremo rancori e pregiudizi. Perché la nostra divisa è la generosità dell’animo e l’intelligenza della storia.

Vogliamo capire fino in fondo i nostri antichi nemici: i croati innanzitutto. Dobbiamo riuscire a persuaderli dei nostri diritti e della nostra buona fede di figli della stessa terra. Far loro comprendere come l’apporto della civiltà latina li abbia fatti quelli che oggi sono, o che dovrebbero essere: un popolo slavo con un’identità ben definita, che non viene dai vincoli tribali del sangue, ma dalla comunanza di valori spirituali, giuridici, estetici con l’Europa occidentale, di cui fanno parte grazie alla lunga e rigogliosa vita delle nostre città, gioielli di cultura e di storia, un ponte tra l’Europa latina e germanica da una parte e l’Europa greca e slava dall’altra.

I dalmati croati di oggi debbono imparare a rispettarci come un fattore essenziale della loro storia e della loro identità nazionale.

Non c’è fratellanza senza riconoscimento reciproco. Siamo stanchi di barriere psicologiche e di contrapposizioni costruite sulle sovrastrutture di ideologie totalitarie e scioviniste. Dobbiamo abbattere ogni steccato con la forza del nostro entusiasmo, della nostra preparazione culturale, della nostra voglia di riconquistare quello spazio nella vita della Dalmazia che ci spetta in quanto eredi diretti della latinità che ha dato un’impronta indelebile alla nostra terra.

 

5)  A leggere i libri di scuola e certa cultura ufficiale di Stato, in Slovenia e in Croazia, non si fa che alimentare una disconoscenza della realtà plurale dei territori tolti all’Italia e acquisiti dopo la seconda guerra mondiale. Lo Stato italiano viene dipinto con i colori più foschi e identificato tout court con il regime fascista. Si confonde volutamente e maliziosamente la situazione di diritto derivante dai Trattati di Rapallo e di Roma del 1920-24 con l’occupazione militare della Iugoslavia nel 1941. Secoli di appartenenza dell’Istria e della Dalmazia alla Repubblica veneta vengono omessi o giudicati come una forma di oppressione colonialista sulle popolazioni autoctone slave.

Le lotte dei liberi comuni medievali per difendere la loro autonomia e indipendenza con l’altalena delle alleanze tra Austria, Venezia e Ungheria vengono assimilate arbitrariamente a conflitti etnici a difesa di una inesistente identità slava, smentita da migliaia di documenti statutari, diplomatici, ecclesiastici, giudiziari, notarili. Trascurando le alleanze con le città della penisola italiana (Ancona, Genova) e trasformando i trattati di cooperazione commerciale e giudiziaria come testimonianze di amicizia italo-slava.

E dalla disinformazione all’aperta menzogna il passo è breve. Queste visioni partono da concezioni riduttive dei rapporti tra popoli e culture. Non si può ragionare soltanto in termini di possesso: possesso della terra, dominio di uomini o di popoli, su uomini e su popoli. La storia dei popoli va misurata in termini di conoscenza, di acquisizione di esperienze, di apprendimento dall’altro di ciò che l’altro ci può insegnare. Che sarebbe stata la civiltà europea senza le colonie greche o fenicie nel Mediterraneo occidentale?

Vedere i rapporti tra i popoli come occupazione e violazione di spazi è concezione primitiva, che coglie un aspetto della verità ma non la sua totalità. L’uomo è qualcosa di più di un animale predatore che ha bisogno del suo territorio di caccia. Comunica idee, valori, sentimenti, scoperte scientifiche, creazioni e invenzioni dello spirito. Ed è spostandosi da un luogo all’altro, conoscendo altri uomini e altri popoli, che si allargano gli orizzonti della conoscenza. Non è soltanto la sete di possesso che spinge i popoli e gli uomini fuori dalle loro sedi originarie, ma l’ansia di conoscenza. E’ lo slancio di Ulisse al “folle volo” la chiave della cultura e del progresso occidentale.

L’insistenza ossessiva sul rapporto sangue-terra è la matrice dei genocidi e delle pulizie etniche del Novecento. Sarà ben difficile costruire una comune identità europea su nazionalismi fomentati da teorie genetiche e fissazione di confini etnici, sempre e comunque arbitrari. Il caso della controversia di confine tra Slovenia e Croazia ne è un esempio, tanto piccolo e per questo più significativo di altri. Cosicché non ci si può stupire se per un europeo occidentale la Balcania cominci a Trieste e di li in poi storia e geografia risultino indecifrabili, come già pensava Stendhal, console di Francia in questa città.

Per noi, esuli italiani dall’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia, che abbiamo pagato di persona gli odi di frontiera, è assai triste dover constatare che alle nostre aperture non sempre corrisponda altrettanta capacità di ascolto da parte slovena e croata. Quanta fatica per aprire un asilo italiano a Zara dopo sessant’anni, anche quando la gente lo chiede!

6)  Ma non è un buon motivo per scoraggiarci. In questa nostra missione adriatica c’è anche l’inveramento dello slancio più nobile del Risorgimento italiano e dell’unità della nazione. Uno slancio che non si chiudeva in un nazionalismo egoistico a aggressivo, ma si apriva ai popoli dell’Europa centrale e orientale in una prospettiva di libertà e di progresso democratico. Questo era l’ideale di Antonio Baiamonti, di Niccolò Tommaseo, di Scipio Slataper, di Giani Stuparich, di Umberto Saba, di Arturo Colautti, pur nelle diverse temperie culturali delle fasi storiche in cui operavano.                                                                                                 

Quando nel 2011 si celebreranno i 150 anni dell’unità d’Italia dobbiamo essere in prima fila, non per esercitazioni retoriche – che noi dall’unificazione abbiamo avuto più problemi che vantaggi – ma per aiutare tutti gli italiani a ritrovare il filo del nostro comune processo di unificazione nell’orgoglio di saper ricollegare la storia spesso gloriosa degli Stati preunitari al cammino difficile e non sempre fortunato dello Stato nazionale del 1861.

La nazione italiana non è nata in quell’anno. Esisteva nella coscienza degli italiani fin dall’inizio del II millennio: “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” . Diceva il lumbard Manzoni. La stessa lingua, dai poeti ai notai, le stesse strutture giuridiche, la stessa arte, dal romanico al barocco, la stessa tradizione musicale. E ben      lo sappiamo noi dalmati, che custodivamo questo patrimonio nelle nostre chiese, nelle case che abbiamo perduto, nelle biblioteche!

La laude che i Flagellanti della Confraternita di San Silvestro cantavano a Zara alla fine del Trecento – sotto sovranità magiara – era la preghiera alla Vergine dal XXXIII canto del Paradiso di Dante.

“Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio…”

E sarebbero stati solo degli italofoni!

Di questi Stati italiani preunitari regionali noi siamo stati parte, sudditi fedelissimi del Veneto Gonfalone, alla cui ombra nessuno ci ha mai visti “vinti o spaurosi”. Siamo stati gli artefici della potenza militare e commerciale della Serenissima sui mari del Mediterraneo.

Con lo stesso entusiasmo e la stessa fedeltà abbiamo servito il Tricolore dalla prima guerra d’indipendenza fino alla guerra di Liberazione, combattendo sui due lati della trincea, con lo stesso onore e lo stesso rispetto delle leggi di guerra.

Da questo passato nasce la forza che ci deve dare la capacità di rinnovarci, di trasmettere alle giovani generazioni questo patrimonio di conoscenze e di fede.
 

7)  Le associazioni della diaspora giuliano-dalmata stanno attraversando un momento di espansione e di attivismo che genera fratture e incrinature. Occorre rinnovare le strategie associative per non esaurire questa carica e sfruttarla al massimo. Quanto si è fatto fino ad oggi non basta. L’Europa è cambiata, l’Italia è cambiata, il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare anche noi! Se vogliamo farci capire dai giovani e dagli “altri” dobbiamo elaborare nuove direttrici di approccio culturale. La collaborazione con i “rimasti” diventa imprescindibile, perché sono loro ad essere rimasti sul posto, a presidiare le posizioni, con tutti i limiti che conosciamo.

Si sono già delineati negli ultimi anni dei centri di eccellenza, focolai di studio condotti soprattutto da giovani, discendenti di esuli e altri giovani volonterosi che si appassionano alle nostra storia, perché è una storia che affascina e appassiona chi ha sete di conoscenza e energie interiori da spendere.

Le ricerche sociologiche ci dicono che ben pochi dei nostri figli e nipoti seguono attivamente la vita associativa. Non è colpa di nessuno. E’ così e basta. Ma ci dicono anche che i più non dimenticano le loro origini. Bisogna allora lavorare con chi di lavorare ha voglia: siano o non siano figli e nipoti di zaratini, di dalmati, di fiumani, di istriani.

La strada di una fondazione che unifichi tutte le energie di ricerca storica e culturale nei vari campi può essere la più indicata. Ci affrancherebbe anche da forme striscianti di assistenzialismo, sempre in agguato nelle italiche cose. Alle associazioni tradizionali rimane il compito di tutelare i diritti degli esuli alle restituzioni, agli indennizzi, all’acquisto delle case popolari, alle tutele previdenziali che attendiamo da sessant’anni.

Ma non ci possiamo fermare lì. Le questioni economiche si risolveranno se sapremo portare avanti la nostra battaglia culturale, quella che ci ha portato a far istituire il Giorno del Ricordo. Ne sono una parte. Chi vuole riavere la sua casa in Istria o in Dalmazia, dove la sua famiglia ha vissuto per secoli, non chiede soltanto un riconoscimento economico. Chiede una presenza reale nella terra cui ha diritto. E che nessuno aveva il potere morale e giuridico di negoziare per lui.

Alla Federazione delle associazioni il compito di promuovere e coordinare le associazioni e i centri di ricerca.

Ma l’obiettivo culturale si rivela primario. Essere parte viva di un’Italia che sappia capire se stessa e abbia stima di sé. Essere strumento di conciliazione nell’Adriatico e nell’Europa che si va unificando, adoperando il processo di allargamento della UE non per arroccarci su battaglie di retroguardia – che sono la vocazione dei perdenti – ma per inserirci attivamente in questo processo, pretendendo il nostro spazio di italiani e di dalmati nella Dalmazia di domani.

  
Lucio  Toth

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