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18 apr – In un libro tutta l’eleganza di Mila Schon

di Arianna Boria su Il Piccolo del 18 aprile 2009

<<Per lei la donna era un essere umano, non soltanto una femmina. Non so se la parola ”signora” abbia ancora un senso in questi giorni distratti e disarmonici, ma da lei entravano delle animale, sciattone, infiocchettate, rozze, trasandate e uscivano veramente delle ”signore”. Almeno all’apparenza...». È il 18 settembre 2008, dodici giorni dopo la scomparsa di Mila Schön, e Mina rompe il silenzio mediatico per affidare a ”Vanity fair” il suo ricordo della stilista dalmata.

Siamo nel 1969 e la cantante varca per la prima volta la porta dell’atelier di via Montenapoleone per scegliere gli abiti da indossare in uno dei Caroselli che fanno parte della storia della televisione, quello per la cedrata Tassoni. Lo confessa Mina stessa: è uno dei rarissimi momenti nella sua vita in cui è in peso perfetto, ”taglia indossatrice”, come si dice all’epoca, tant’è che una delle mannequin interne dell’atelier le presta un suo body per la prova degli abiti.

Mina è diffidente verso una griffe che ha la fama di vestire soprattutto il jet-set internazionale, da Marella Agnelli a Lee Radziwill, la sorella minore di Jackie. Ma dopo un po’ l’atmosfera si sgela e si instaura un rapporto di fiducia che durerà negli anni: «Mila – racconta Mina – mi guardava con gli occhi intelligenti che non nascondevano un’arietta tra il divertito e il compiaciuto. Compiaciuta delle sue cose che erano veramente clamorose. Con un taglio da architetto, severe, nobili, senza concessioni alla bassa femminilità. Insomma, roba serissima. Avevo comprato da lei, ricordo, un completo grigio chiaro: vestitino cortissimo, cappottone maxi, stivali alla coscia e cappello di volpe. Tutto dello stesso colore. Poco fa ho cercato in un armadio e ho ritrovato il vestitino, perfetto… Adesso mi andrebbe bene a una coscia…».

È una delle testimonianze raccolte nell’imponente «M as Mila Schön», il volume con i testi di Patrizia Gatti e la cura artistica di Daniele Costa che arriva nelle librerie martedì pubblicato da Electa (pagg. 366, euro 75), sette mesi dopo la scomparsa della stilista di Traù, morta il 5 settembre 2008 a 89 anni.

Ricordi di quanti condivisero con lei una straordinaria carriera, spezzoni di interviste, riproduzioni di articoli e di copertine, i bozzetti che raccontano uno stile sempre in evoluzione eppure sempre fedele a se stesso. E, soprattutto, le bellissime foto di Ugo Mulas, immagini di un gusto che ha attraversato le brevi e inquiete epoche della moda, dagli anni Sessanta ai Novanta, senza perdere la sua cifra inconfondibile: sobrietà, rigore, misura, equilibrio anche nell’innovazione. «Una cosa che mi fa inorridire sono le stravaganze a tutti i costi», diceva.

Mila stilista per caso dopo il tracollo finanziario del marito, Aurelio Schön, commerciante di preziosi, da cui si separa rinunciando a tutto. I primi modelli presentati alle amiche dell’alta società meneghina, incuriosite e un po’ perplesse, nella casa della madre, Bianca Zacevic della famiglia dei Luxardo del maraschino, in via Felice Casati, anno 1957. Con lei c’è Enrica Colombo, la giovane sarta di «Rina Modelli», uno dei più celebri laboratori milanesi dove si realizzano abiti copiati dalla couture francese, che rimarrà al suo fianco come première per trentasei anni.

Le immagini, più di qualsiasi parola, raccontano gli incontri, le occasioni, le trasformazioni, i successi internazionali della griffe Mila Schön, che debutta, nella Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze, nel gennaio 1965. Una collezione breve, preparata col nodo in gola, a pochi mesi dalla morte di mamma Bianca, con dentro già tutto lo stile Schön: i primi tessuti double in ecrù e grigio accostati ai colori pastello, i tailleur, i cappotti, gli abiti più aderenti al corpo e mai oltre il ginocchio, le spalle piccole e comode, le proporzioni perfette. Il pubblico applaude emozionato, ma Mila torna a Milano con tutti i suoi capi, «perchè – racconterà in seguito – mi avevano consigliato di non vendere a scatola chiusa agli americani. E io volevo entrare in quel mercato nel modo giusto».

Ecco Mila, infatti, poche pagine dopo, sulla scaletta di un aereo insieme al fidato Loris Abate, a lungo amministratore delegato, in partenza per gli Stati Uniti dove, con Valentino, è stata per anni considerata la quintessenza dello chic, la ”Coco Chanel italiana”, come la definì Diana Vreeland, direttrice di Vogue America.

Ecco il ballo in maschera al Plaza Hotel di New York, nel novembre 1966, organizzato dallo scrittore Truman Capote per festeggiare il successo del suo ultimo romanzo ”In cold blood”. Cinquecento invitati per il primo tappeto rosso di cui si abbia cronaca, su cui sfilano Nelson Rockefeller e Henry Fonda, Frank Sinatra e Andy Warhol e le donne più belle del mondo, Marisa Berenson, Candice Bergen, Lauren Bacall. Marella Agnelli e Lee Radziwill vestono Mila Schön, la prima un caftano ricamato a cerchi e righe in perle e paillettes color argento, la seconda un abito a guaina con uno strato di chiffon dai motivi a onda, entrambe semplicissime e superbe. ”Women’s Wear Daily”, la rivista che compila la lista delle signore ”best dressed”, non ha dubbi: sono la prima e la terza tra le più eleganti, per la griffe un trionfo.

Marella, Lee, la stessa Jackie («ricordo – dice Mila – quando venne a trovarmi per la prima volta nel mio albergo a New York: si annunciò con una semplice telefonata, poi decise tutto con poche parole, scelgo questo, e quest’altro, e quest’altro, senza modifiche, senza capricci. Dopo due ore eravamo amiche e visto che si era fatto tardi, siamo andate a mangiare due sandwich insieme…»), e poi Imelda Marcos (che ordinò un abito con lo strascico lungo come la chiesa che doveva inaugurare), Farah Diba, Ira Fürstenberg, Britt Ekland, Sylva Koscina, Catherine Spaak, Virna Lisi, Mina, Milva…

Scorrono le copertine, Vogue, Amica, Grazia, Oggi, Gente, e gli anni dello stile Mila Schön. Il 1965 con i beige e marron, in tutte le sfumature, che conquistano il Neiman Award, l’Oscar americano della moda per il colore. Il 1968 dei costumi-gioiello, tempestati di pietre dure, presentati a Capri. Un anno dopo la prima divisa su misura per le hostess dell’Alitalia, tailleur e mantello «verde Italia» su blusa blu, cui seguiranno le versioni «rosso Manciuria» e gialla, per le assistenti di terra.

Nel ’71 il negozio in via Condotti, set delle campagne fotografiche dell’amico Ugo Mulas con una delle mannequin preferite, Benedetta Barzini. Poi gli abiti da sera ispirati all’arte di Fontana, Noland, Klimt, Vasarely, lo sbarco in Giappone, prima griffe alla conquista dell’Oriente commerciale, l’incontro con Reza Pahlavi e con la seconda moglie, Farah Diba, che la strappa al contratto miliardario di Alitalia e le commissiona le divise per le hostess di Iran Air.

Piccolo atelier, poi maison, poi multinazionale dello stile con quasi trecento dipendenti a metà degli anni ’80. Mila regna su un piccolo impero che va dalle collezioni uomo e donna ai profumi, dagli occhiali, alla valigeria, alle piastrelle, agli orologi, ai kimono. Il suo stile segue i tempi senza adeguarvisi, le nudità degli anni Ottanta diventano sulle sue passerelle trasparenze discrete, chiffon stampati, i Novanta li attraversa con tailleur impeccabili e pantaloni morbidi, ricami e velluti accostati al lamè per la sera.

La sua ultima passerella è a Parigi, nel 1993, lo stesso anno della cessione definitiva della società ai partner giapponesi Itochu. Investimenti azzardati, le conseguenze della crisi del Golfo, alcuni negozi di punta costretti a chiudere, una holding diventata enorme e incontrollabile, spingono a vendere tutto. Quella sfilata parigina, interpretata da Naomi, Marpessa, Carla Bruni, le top più top del momento, è una sorta di regalo del figlio Giorgio alla madre.

Poi la ”signora dello stile” esce pian piano di scena. Il libro si chiude qui, anche se la griffe va avanti e, da un paio di anni, con le belle collezioni couture di Bianca Gervasio, che cita Mila con intelligenza. «Valorizzare per me vuol dire personalizzare, far risaltare nelle donne, e in genere nelle persone, la cosa migliore che hanno».

 

 

 

(una delle ultime immagini della dalmata Mila Schon)

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