deangelini

13 lug – Lingua italiana in Istria: scambio De Angelini-Masi

Roma, 11 luglio 

Egregio Sig Alessandro Masi

Le avevo spedito analoga lettera il 2 luglio sulla sua e-mail personale che forse non ha più in uso. Le invio nuovamente la lettera (leggermente modificata) per chiederle cortesemente una risposta che, visto le forti reazioni che il suo articolo ha suscitato in molti ambienti della cultura e dell'esodo giuliano-dalmata, ritengo sia doverosa.

Ho acquistato la rivista edita nella collana "I Viaggi del Sole" n.7 luglio 2009 avente come tema unico la Croazia con la speranza che non fosse il solito polpettone che generalmente esce in questi periodi per incensare i lidi "croati". La speranza era dovuta al fatto che avevo saputo che vi erano contributi di Magris, Missoni, Cosulich e quello del Segretario Generale della gloriosa Dante Alighieri, ovvero il suo. (*)

Ero preparato alla solita disattenzione nell'uso della toponomastica tipo l'Arena di Pula o il Muzej Zavicajni di Rovinj che per me, nato a Rovigno, è un vero pugno nello stomaco ma, ad essere onesti, l'articolo che più mi ha colpito è proprio il suo, e questo per varie ragioni. Se le tesi riportate nel suo articolo "Dimmi di Sì" le avesse portate avanti uno studioso croato non mi sarei stupito più di tanto, ma dover leggere, e cito testualmente il suo incipit, che "La nostra lingua è arrivata in Croazia via mare. Giunse qui, l'italiano (o meglio, vi giunse una delle tante parlate d'Italia), nei tempi in cui questa terra era l'altra sponda di quel grande e fiorente Stato del Mare che era la Repubblica di Venezia" beh, mi ha fatto drizzare i capelli in testa.

Lei con questa ardita affermazione lascia credere all'ignaro lettore italiano che la "Lingua del Si" sia giunta in Istria e Dalmazia come un portato esterno ovvero "Esattamente come una nave che giunge in vista in una terra inesplorata…", come se in quelle regioni prima dell'avvento di Venezia si fosse parlato il croato o un suo dialetto. Non posso pensare che lei non sia al corrente della profonda latinizzazione di quelle terre che hanno dato imperatori a Roma e Dogi a Venezia. Non posso pensare che lei non sappia che le città marinare di Capodistria, Pirano, Umago, Isola, Parenzo, Orsera, Rovigno, Pola, Zara ecc. ecc prima di accettare la supremazia veneziana non parlavano affatto un idioma croato. Lei sa bene che in tali città la latinità si è evoluta, come nel resto d'Italia, in linguaggi romanzi: il veneto-istriano e l'istrioto in Istria; il dalmatico ed il veneto in Dalmazia. Ad ulteriore dimostrazione di ciò è il fatto che anche nelle cittadine dell'Istria mai soggette a Venezia il linguaggio in uso era sempre un linguaggio del SI (come per esempio a Pisino), idem dicasi per Fiume o per la Repubblica di Ragusa soggette a Venezia soltanto per brevissimi periodi.

Un altro punto che mi ha lasciato di stucco è quando lei scrive "Un contatto talmente profondo che anche autori croati scrissero in italiano. Citiamo tra l'altro lo spalatino Girolamo Papali (nato nel 1460)…" ora attribuire una patente di "autore croato" al povero Girolamo che non può difendersi fa il paio con le affermazione dei più accesi nazionalisti croati. Non le risulta che Spalato ha da sempre avuto una comunità "italiana" autonomista e contraria all'annessione alla Croazia ancora viva a fine XIX secolo?? Ahimè son state davvero profetiche le parole rivolte nel 1887 da Antonio Bajamonti ai corregionali della parte croata alla Dieta Provinciale dalmata: “Noi fino dai primi tempi vi abbiamo accolto nei nostri lidi e nelle nostre città …ora ce ne discacciate assegnandoci come unica dimora il fondo del mare …noi vi abbiamo dato l’istruzione e voi ci condannate all’ignoranza, noi abbiamo attinto alle comuni tradizioni e voi in omaggio alla vostra passione politica di partito chiudete il libro della storia!” ed ora, aggiungo io, ce ne discacciate anche dalla nostra storia… perchè quando si arriva addirittura a etichettare a ritroso come "autori croati" scrittori di secoli fortunati in cui la perversione nazionalista non si sapeva neanche cosa fosse è un vero assurdo. O forse lei ha fatto una seduta spiritica in cui il buon Papali ha fatto outing e si è dichiarato un croato ante litteram che, per uno strano accidente del caso, scrisse le sue opere nella lingua di Dante?

Io per fortuna sono vivo e le posso garantire che pur essendo nato a Rovigno (**) sono un autore italiano, questo glielo affermo a futura memoria. Mi resta una domanda nella penna: perchè diavolo lo ha fatto?!

distinti saluti

Gianclaudio de Angelini
Vice presidente dell'Associazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio.
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(*) se si pensa agli scopi istituzionali con cui nacque la Società Dante Alighieri nel 1889 non si può che rimanere sconcertati da quanto scrive oggi il suo Segretario Generale.
(**) o meglio, proprio perchè sono nato a Rovigno!!

 

13 luglio 2009 – Risposta di Alessandro Masi

Gentile Signor De Angelini,

ho ricevuto la sua e-mail e sono sinceramente dispiaciuto che lei si sia sentito in qualche modo offeso da quanto ho scritto. Mi creda, comprendo le ragioni del suo intervento, tuttavia vorrei segnalare un paio di fraintendimenti che ho colto nella sua lettura dell’articolo, e che spero risolvano le questioni da lei sollevate. In particolare, vorrei soffermarmi con lei su due concetti base che la aiuteranno a chiarire la posizione da cui prende le mosse il mio racconto sull’arrivo dell’italiano in Croazia: il concetto di lingua e la definizione di lingua italiana.

Definire una lingua dal punto di vista storico e geografico non è una cosa semplice, e per la natura stessa dell’oggetto, che è in sé mutevole sia dal punto di vista diacronico, sia da quello della diffusione geografica, rende necessarie a volte delle semplificazioni che vanno poi verificate nella pratica linguistica delle singole comunità. Tuttavia possiamo aiutarci con il dato storico che riguarda l’ampia regione d’Europa dominata dall’Impero romano, nella quale il latino ebbe diffusione e fu assorbito dalle comunità locali come lingua d’uso; questo dato ha permesso agli studiosi di individuare un’area denominata Romània, che sarebbe quella in cui, a partire dal latino, è iniziata l’evoluzione delle lingue romanze. All’interno della Romània gli esiti di questa lunga evoluzione linguistica sono stati molto diversi, e hanno dato vita a idiomi ben distinti fra loro e legati alla specificità dei loro parlanti. È il caso dell’italiano, di cui parlerò in seguito, ma anche del dalmatico, parlato con le sue varianti nella zona che lei ha citato, e che non costituiva una variante della lingua italiana, ma un’evoluzione autonoma della parlata latino-volgare della sua regione. Ovvero, una lingua a sé stante, che ha dei tratti in comune con l’italiano perché come l’italiano deriva dal latino, ma che ha avuto vita, storia e dignità proprie. Affermare, come fa lei, che il dalmatico è una variante dell’italiano è un torto che si fa a una lingua storicamente prestigiosa e oggi purtroppo estinta. Sarebbe come affermare che, dato che il provenzale ha dei tratti in comune con l’italiano settentrionale, esso non è che un dialetto dell’italiano. E questo non ha ovviamente alcun senso.

E veniamo qui alla precisazione che riguarda l’italiano. Anche in questo caso per parlare di lingua vera e propria bisogna fare delle distinzioni. Le prime testimonianze di volgare italiano risalgono al X secolo, ma da allora e fino al Cinquecento non abbiamo modo di considerare le lingue usate nella penisola come un insieme linguistico universalmente condiviso. Si comincia a parlare di lingua italiana a metà del Quattrocento, quando si inizia a fissare per la nuova lingua un sistema grammaticale simile a quello del latino; all’inizio del Cinquecento si afferma come lingua della norma il dialetto fiorentino trecentesco, e ci vorrà almeno un altro secolo perché questo canone, fissato da Pietro Bembo nelle sue Prose della volgar lingua (1525), venga assorbito su gran parte del territorio italiano come standard per la lingua scritta delle classi istruite. Per quanto riguarda il parlato, invece, i singoli idiomi locali hanno avuto una vita ben più lunga, tant’è vero che al momento dell’unità d’Italia ancora la stragrande maggioranza dei cittadini italiani parlava solo e unicamente il proprio dialetto. Avrà infatti notato che nell’articolo ho citato la “parlata veneziana”: il motivo è appunto questo. È difficile fare affermazioni nette e precise su un argomento, la lingua, che non si presenta mai fisso e immutabile. In ogni caso confermo quello che ho scritto nell’articolo: fu questa parlata, che i tempi e la normalizzazione ci consentono di chiamare italiana, ad arrivare nella sua regione con la conquista veneziana della Dalmazia e delle zone limitrofe e a soppiantare in molti casi la locale parlata dalmatica. Mi dispiace che lei abbia colto nelle mie parole un tentativo di dimostrare che l’italiano ha “latinizzato” un’area di per sé slavofona. Non era ovviamente mia intenzione, e se non ho accennato ai trascorsi romanzi delle parlate locali è solo e unicamente per una questione di spazio. Se però non ho parlato di una latinizzazione, ciò non significa che l’italiano non sia penetrato, come forma linguistica autonoma ed esterna, in un’area in cui linguisticamente si parlava altro. Anche qui mi aiuto con un esempio: l’affermarsi di parole italiane in campo musicale ha interessato tutta l’area romanza; lingue come il francese e lo spagnolo hanno ancora oggi nel loro sistema lessicale termini come bravo, presto, allegro, sonata. Si tratta di scambi fra lingue di per sé distinte e autonome (in termine tecnico, di prestiti), per quanto di base questi idiomi siano accomunati dall’origine con il latino. È la stessa cosa accaduta in Croazia, dove potrei aggiungere che in una fase successiva le parlate romanze locali hanno avuto un ruolo importante di intermediazione tra l’italiano e le lingue slave.

Spero di essermi spiegato e di aver risolto così i dubbi da lei sollevati. La ringrazio per l’interesse dimostratomi e, se le fa piacere tornare sull’argomento, la invito a consultare il sito della Società Dante Alighieri (www.ladante.it), dove troverà materiale per poter approfondire questi temi.

Con i miei saluti più cordiali.

 

La controreplica

Gentile sig. Masi

sono grato della cortese risposta su cui non posso che concordare sulla sua esamina storica della genesi delle varie lingue romanze sorte dalla Romània. Mi permetta però di ribadire alcuni punti che per me sono essenziali.

La sua dotta disquisizione nell'articolo è completamente assente e quando lei afferma che la "Lingua del SI" è arrivata nelle terre dell'Adriatico orientale come in una terra inesplorata grazie a Venezia per un lettore italiano, anche di media cultura, lascia intendere che abbia trovato un terreno incolto. Ebbene così non era. Le citta istriane scrivevano i loro statuti in latino ed in latino firmarono i patti di dedizione a Venezia. Se la lingua della Serenissima trovò terreno fertile fu proprio perchè le popolazioni istriane parlavono una lingua simile. Non si trattava certo dell'italiano del Bembo ma era un linguaggio affine. Non sarò certo io a declassare l'istrioto o il dalmatico ma non averne minimamente accennato nell'articolo lascia credere al lettore medio che in tali città precedentemente si parlasse un linguaggio slavo. Bene così non è. Certo la lingua batte dove il dente duole e noi istriani e dalmati siamo molto suscettibili proprio perchè in Croazia, anche da parte di molti studiosi, si sta operando un'azione di cancellazione della presenza romanza-italiana anche a ritroso.

Ecco perchè mi ha fatto sobbalzare la sua definizione di autore croato di Girolamo Papali quando la Croazia ancora non esisteva e quando Spalato faceva parte dello Stato della Serenissima. Un'affermazione così fa il paio con quella di alcuni studiosi croati che cercano di qualificare come croato anche Marco Polo.

Insomma le voglio ricordare che la conoscenza delle lingue parlate in Istria e Dalmazia nel corso dei secoli in un lettore italiano anche di cultura universitaria è assai scarsa e quindi, proprio per portare avanti le finalità di una associazione storica come la Società Dante Alighieri noi dobbiamo, come recita il manifesto agli Italiani del 1889, adoperarci: "… a tutelare e diffondere nei paesi di confine o disgiunti dalla madrepatria, la lingua, la cultura e il sentimento di essa, … che ovunque suona un accento della lingua nostra, dovunque la civiltà nostra lasciò tradizioni, dovunque sono fratelli nostri che vogliono e debbono rimanere tali, ivi è un pezzo della patria che noi non possiamo dimenticare. Non solo: ma quanto quei fratelli nostri, per le condizioni particolari dei luoghi nei quali dimorano, corrono maggior rischio di perdere , con la cognizione e l'uso della lingua italiana, la coscienza della patria , tanto noi abbiamo maggior obbligo di accorrere in loro aiuto".

Ebbene noi abbiamo ancora dei nostri connazionali in Istria, a Fiume e a Zara che cercano di mantenere viva la lingua italiana e proprio costoro sono stati nel suo articolo completamente dimenticati. Io credo che il compito, anche e soprattutto in riviste turistiche, sia quello di informare gli ignari turisti italiani che recandosi in tali località si recano in una terra che – seppur ora è divisa tra gli Stati di Slovenia e Croazia e, per la sola zona di Muggia, l'Italia – ha avuto una secolare storia "italiana" perchè quando i letterati italiani accettarono i canoni liguistici del Bembo altrettanto fecero quelli dell'Istria e della Dalmazia (Ragusa docet). Glissare su tutto ciò, seppur nell'ambito tirannico di un articolo di una paginetta, è fornire un prezioso assist alla Croazia.

Con la speranza che in futuro simili incompresioni non debbano ripetersi le invio i miei

Cordiali saluti

Gianclaudio de Angelini

 

 

 

(la copertina della pubblicazione in questione)

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