di ARRIGO LEVI su La Stampa dell'11 febbraio 2011
Avendo ascoltato il saggio, illuminato intervento di Enzo Bettiza al Quirinale, in occasione del «Giorno del Ricordo», e avendo assistito ancora una volta, qualche settimana fa, alla celebrazione della «Giornata della Memoria», mi ha colpito una certa, inevitabile e direi quasi radicale diversità nelle riflessioni che l’una e l’altra occasione suscitano in chi viene chiamato a trarre un insegnamento dalla rievocazione di quei tragici eventi di un nostro non lontano passato.
Se si riflette sulle stragi degli italiani in Istria, sull’orrore delle foibe, si è portati ad auspicare (non per buonismo, ma con spirito realistico), una piena riconciliazione fra popoli e comunità che furono responsabili, dall’una come dall’altra parte, di orribili atrocità. E’ questo che ci hanno detto non soltanto Bettiza, ma il presidente Napolitano, con motivata convinzione. Ed anzi, si può prendere atto, con ragionato compiacimento, che questa riconciliazione è già stata avviata: non già seppellendo il ricordo di quanto è accaduto (come potrebbero gli italiani dell’Istria e della costa dalmata dimenticare la loro terra perduta?), ma prendendo atto, appunto nel «Giorno del ricordo», del fatto che un nuovo grande ideale politico, quello dell’Europa unita, si sta realizzando; e che nel quadro di questo progresso di civiltà il ripetersi di quelle tragedie è già divenuto impossibile, inimmaginabile. Sicché, a Gorizia divisa in due ci si può guardare con spirito di amicizia attraverso una frontiera di fatto cancellata dalla comune appartenenza all’Europa; e i capi di stato dei tre Paesi eredi di quel tragico passato – Italia, Slovenia, Croazia – possono, come è di fatto accaduto, proclamare la ritrovata amicizia fra i loro popoli. Rimane certo profonda amarezza nell’animo degli eredi di coloro che furono vittime incolpevoli di quelle non lontane barbarie; ma è giusto cogliere l’occasione del «Giorno del Ricordo» per guardare avanti, ed anzi per rallegrarsi del fatto che stiamo già scrivendo, tutti insieme, una nuova pagina di storia.
La riflessione che tutti continuiamo a fare, quando, nella Giornata della Memoria, riflettiamo sulla Shoah, e sull’insegnamento che da questa riflessione si può trarre, è molto diversa. Nessuno immagina, o propone, una «riconciliazione». E con chi? Con il nazismo o il fascismo? No di certo. Ma riesce difficile anche parlare di una riconciliazione fra i popoli: e soprattutto fra ebrei e tedeschi. Ricordiamo bene con quanto disagio questa riconciliazione venne proposta e compì i primi passi, fin dai primi anni dopo la creazione dello Stato d’Israele: che assunse automaticamente, e con il consenso di tutte le comunità ebraiche sparse per il mondo, la responsabilità di avviare un percorso di riconciliazione, per quanto inimmaginabile all’inizio apparisse.
Occorse, da parte ebraica, un ragionato, difficile sforzo per distinguere fra Stato nazista e popolo tedesco; fra le responsabilità del nazismo e quelle della Germania: Paese che la vasta, colta e influente comunità ebraica tedesca, prima di Hitler, aveva accettato come propria patria, dando un grande contributo alla storia tedesca. Si narra di ebrei tedeschi che, anche nei lager avevano continuato a tener viva la propria identità culturale tedesca: come dimenticare quella grande civiltà, di cui erano stati partecipi? Gli ebrei d’Israele, forti della loro nuova identità di popolo e di Stato, riuscirono a fare il primo passo verso la Germania; e gradualmente ritornò anche, in Germania, una nuova comunità ebraica, che certo non ha dimenticato, ma si è riconosciuta in una nuova Germania, che ha, sinceramente e con significative manifestazioni, rinnegato con orrore il passato nazista.
Ma tutto ciò non cancella la profonda diversità di una riflessione sulla Shoah da ogni altra occasione di ricordare le vergogne di un non lontano passato. Non è alla presa d’atto di una pur sincera «riconciliazione» fra ebrei e tedeschi, o fra gli ebrei e tutti gli altri popoli europei, non escluso quello italiano, che contribuirono in maggiore o minor misura al disegno di morte nazista, che possiamo affidarci per ritrovare la serenità dentro di noi. Coltiviamo giustamente, in ognuno di questi Paesi, la memoria dei Giusti che, salvando a rischio della loro vita gli ebrei cui si dava la caccia, hanno salvato anche il nome e la coscienza dell’Italia, o della Francia, o della Polonia. Eppure, non riusciamo a trovare, neppure nella memoria dei Giusti, una pacificazione della nostra coscienza. Dichiariamo, come è giusto, che teniamo vivo il ricordo di questo orrore «affinché non possa mai ripetersi». Ma fatichiamo a convincerci che le radici di ciò che fu la Shoah siano state per sempre estirpate, anche dopo la «riconciliazione» fra il popolo ebraico e gli altri popoli.
E non perché vi siano ancora nel mondo manifestazioni vistose di antisemitismo, che vi sono. Ma perché, come uomini, non importa di quale nazionalità, ci sentiamo tutti colpevoli, tutti tedeschi. Possiamo, con piena fiducia, riconciliarci con noi stessi? Se vi sono stati rabbini che, dopo la Shoah, hanno cessato di credere in Dio, noi non possiamo non mettere in discussione, nel fondo della nostra anima, la nostra fede nell’umanità. Così, in ogni Giornata della Memoria, si riaffaccia alla nostra coscienza un dubbio che non ci dà pace.