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10 mag – Udovisi: la sua testimonianza al Tg1

Graziano Udovisi ha un carattere dolce, gentile. Sorride spesso, ogni volta che può. Si sente subito che ha piacere nel riceverti. Ti mette a tuo agio: la visita è gradita. Fuori Reggio Emilia è fredda, le campagne imbiancate da spruzzi di neve, il teatro, le piazze, le chiese, ancora più belle avvolte da un velo d’aria umida. Lui resterebbe volentieri a chiacchierare davanti ad un altro piatto fumante di ravioli di zucca, come se i giornalisti fossero solo dei vecchi amici. Ma basta pronunciare la parola lavoro e subito si alza. Attende che le luci siano accese sul piccolo set e, sostenuto dalla moglie Corinna e dalla figlia Raffaella, comincia a raccontare.

Poche frasi e siamo subito nel dramma: le torture, i colpi che gli hanno spaccato i timpani, le frustate col fil di ferro. Fil di ferro: alla fine lui e gli altri prigionieri erano rossi come se li avessero dipinti, rossi del loro sangue. E quella non era ancora la fine. I titini li costringono a marciare scalzi fin sul bordo di una foiba.

Questo è il cuore del racconto di Graziano Udovisi ma prima di leggerlo dovete provare ad immaginarvi di stare sul bordo di una foiba. È quasi impossibile. È un vuoto pauroso, un buco nero nella terra, le gambe si rifiutano di muoversi mentre quel vuoto oscuro sembra possedere un magnetismo che ti attira. Il solo pensiero di caderci dentro ti spinge a fare subito qualche passo indietro, ad allontanarti. Sul bordo di una foiba Graziano Udovisi in meno di un secondo dovette decidere se stare fermo e morire attendendo la mitragliata o saltare e morire subito cadendo nel baratro.

E all’improvviso dal volto e dalla voce di questo signore mite, gentile e sorridente, il ricordo fa riemergere la rabbia che lo colse allora. Tutto il racconto sale di tono. Anche l’operatore e il fonico, che pure ne hanno visto e sentito inseguendo il loro lavoro, sembrano diventati di pietra.

Tutti e sei siamo lì, sull’orlo di questa foiba e subito dopo ci ha presi la gragnuola di colpi sparati con il mitra, ma prima che loro sparassero io mi sono buttato dentro pensando: foiba mia sei della mia terra fammi morire subito.  E…. –Graziano Udovisi si ferma e quel secondo diventa un tempo sospeso nella storia, lungo quanto un’intera vita-  e…mi sono buttato dentro. Un alberello che sporgeva mi trattiene un momento. È  stato anche quel momento, ripensandoci dopo, che ha permesso agli altri di cadere tutti quanti. E di cadere dove? Dentro l’acqua. Era una foiba chiusa, una foiba piena d’acqua. Con un salto di una ventina di metri sono piombato anch’io dentro e dimenandomi, perchè sapevo che bastava ingoiare una boccata d’acqua e ormai si era perduti, non avrei più rivisto nessuno,….ho trattenuto il respiro…ho forzato e questa mano l’ho liberata. L’altra mano è stato semplice liberarla. ho dato un colpo per poter risalire e ho incontrato una zolla di terra con dell’erba. Non era una zolla, era la testa di quello che era dietro a me. L’ho presa con forza e l’ho tirata su con me. Ho salvato un’altro che non è stato neanche lui scalfito da un colpo di mitra.

Ormai Graziano Udovisi viene invitato in molte scuole a testimoniare la tragedia delle foibe. Ci va volentieri, gli piace incontrare i ragazzi anche se per lui ricordare ha un prezzo. “Alla notte, quasi tutti dormono sogni belli tranquilli. Io tante volte mi sveglio e il mio pensiero va ai 20.000 morti che abbiamo avuto in Istria.”

La moglie Corinna è la persona che lo conosce meglio di tutti, sa valutarne ogni minima espressione del viso, ha vissuto con lui tutta la pena di un ricordo che per decenni è rimasto soffocato nel silenzio: “Si, effettivamente ha dei momenti, così, come incubi. Soprattutto inizialmente. appena sposati, aveva questi momenti …si svegliava di colpo…probabilmente era preso da questi ….da quello che aveva passato”.

Raffaella, la figlia, professoressa appena andata in pensione, ci tiene a sottolineare come è avvenuto il passaggio di una memoria così tragica nella sua famiglia: “Ricordare quello che ha patito, la sua sofferenza, è per lui un dolore. Ma non ho mai sentito da parte sua la volontà di far pesare in famiglia questo ricordo. Non ha mai pesato negativamente. Per me lui è sempre stato un padre dolce e severo nello stesso tempo e questo ricordo non ha mai pesato.”

Quel che ha davvero pesato nel ricordo di Graziano Udovisi è stato il lungo silenzio imposto dalle vicende della politica alla storia delle foibe: “Tutto era silenzio. Nessuno sapeva niente di queste cose. – dice la moglie-  Infatti sono passati 60 anni e appena adesso si viene a sapere come sono andate le cose.”

La legge sul Giorno del Ricordo ha stimolato studi e ricerche su questa pagina di storia, ma l’avvicinarsi del 10 febbraio ha un peso e un valore particolare nella famiglia Udovisi: “Riesumare questi fantasmi del passato, potenti scatenanti, per lui è fonte di sofferenza fisica…anche perchè ha 83 anni e non è più in grado come un tempo di sopportare. – dice la figlia Raffaella-  Direi che più passa il tempo più cresce in lui questa volontà di raccontare perchè sa che il tempo non sarà infinito davanti a lui. Quindi per lui la necessità di testimoniare è più stringente, più pressante, specialmente quando si avvicina gennaio, febbraio, il giorno del ricordo. Noi lo sappiamo, lo vediamo e specialmente in questo periodo dell’anno ci stringiamo di più a lui.”

Prima che si spengano le luci sul set dell’intervista, Graziano Udovisi chiede ancora la parola: ”Siamo stati trattati male, ci hanno denigrato, hanno detto che eravamo fascisti e quindi colpevoli e quindi da respingere. Non eravamo fascisti, non siamo fascisti. Noi siamo solo italiani…..I-TA-LIA-NI.” Batte sulla parola italiani come se ogni sillaba fosse un chiodo e poi affida ad un sorriso il suo amore per la vita. Un sorriso accompagnato dall’offerta di un maraschino Luxardo, liquore nato un tempo nelle sue terre, quelle che non sono più Italia.

Roberto Olla, Rai Tg1

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