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10 feb – MENIA: UN GIORNO CHE E’ UN ATTO D’AMORE

di Cecilia Moretti su www.ffwebmagazine.it

Il 10 febbraio 1947 Dalmazia e Istria venivano annesse alla Jugoslavia. Si sanciva il dramma dell’esodo dei 350mila italiani – istriani, giuliani e dalmati – costretti, quelli sopravvissuti alle foibe e alle violenze dei partigiani comunisti titini, ad abbandonare la propria terra. Nella ricorrenza di quel giorno si è stabilito di celebrare la memoria delle migliaia di nostri connazionali del confine nord-orientale massacrati perché genericamente colpevoli di essere italiani e delle centinaia di migliaia di profughi italiani disperatamente in cerca, in Italia, di una madrepatria, troppo spesso rivelatasi matrigna. Fiero primo firmatario della legge n. 92 del 2004, che istituisce il “Giorno del ricordo”, come atto d’amore alla memoria nazionale e per «risarcire l’oltraggio dell’oblio, affinché il “demone del male” non possa ritornare mai più» è Roberto Menia, deputato di Futuro e libertà, membro della commissione Esteri alla Camera e coordinatore di Fli in Friuli Venezia Giulia.

Un’iniziativa per rendere onore alla memoria del nostro paese?

Sì. E per ridare, almeno a livello simbolico, voce a quell’Italia di martiri che voce non ebbe e a quella schiera di 350mila esuli che si sparpagliarono per il mondo e che costituirono una sorta di plebiscito di italianità, quel plebiscito che loro chiedevano e non è stato mai realizzato, ma ha preso di fatto forma nell’esodo. Un modo, insomma, per porre riparo a quella sorta di damnatio memoriae che copre tutta la vicenda, per ragioni di ordine interno e internazionale. Da una parte, era infatti difficile per l’Italia repubblicana nata dalla Resistenza ammettere gli eccessi della Resistenza rossa, e quindi le stragi comuniste dei titini e quelle pagine non nobili del Pc italiano, quando Togliatti stesso invitava i triestini ad accogliere le truppe iugoslave come liberatrici. Dall'altra parte, sul versante internazionale, la damnatio memoriae era dovuta al fatto che quando Tito ruppe con Mosca e divenne il capo dei non allineati, diventò funzionale al mondo occidentale, quindi un uomo da non toccare, dipinto come grande statista di cui venivano nascoste le malefatte, mistificando l’accaduto.

Quali saranno, oggi, le celebrazioni a Trieste?

Una cerimonia ufficiale alla foiba di Basovizza, poi una manifestazione al teatro Verdi, dove verranno consegnate medaglie d’onore ai parenti degli infoibati e il presidente Fini, proprio nel 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, parlerà del percorso di destra e sinistra per una memoria condivisa dei drammi al confine orientale. Verrà inaugurata una mostra dedicata al “Giorno del ricordo” nel museo della civiltà istriana, fiumana e dalmata, appena costruito a Trieste. E visiteremo anche quelle opere d’arte reclamate dalla Slovenia.

Sarebbero?

I dipinti del Carpaccio, del Tiepolo, del Vivarini e altri capolavori della scuola veneta, che da alcune chiese istriane furono spostati a Roma nel ’40, all’inizio della Seconda guerra mondiale, per preservarli dai pericoli del conflitto e che ora, dopo circa 60 anni nei sotterranei di Palazzo Venezia, sono esposti a Trieste. Bene, qualche settimana fa, il presidente sloveno Turk, in visita ufficiale a Roma, ha incontrato il presidente Napolitano: abbiamo appreso dalla stampa slovena che è venuto a porre come questione di relazioni bilaterali la restituzione dei capolavori istriani che l’italia avrebbe «indebitamente trafugato». Peccato che quei dipinti sono, senza possibilità di diverso appiglio, patrimonio artistico italiano: di artisti italiani, per edifici italiani, spostati a loro tempo all’interno del territorio nazionale italiano. Ho presentato subito una interpellanza pubblicata al Governo, per avere la certezza che non si sogni neppure di cedere altri ciò che non spetta affatto a loro.

Il Governo sloveno non è stato altrettanto sollecito a restituire i beni che spettavano agli italiani…

Loro non hanno restituito niente di quello che hanno rubato alla nostra gente. È la solita, insopportabile arroganza. Di fronte alla questione mai risolta dei beni cosiddetti abbandonati, che in realtà sono frutto delle rapine comuniste, da parte nostra c’è stato il consueto atteggiamento debole: è vero che avevamo tutto l’interesse a costruire la Comunità europea allargata, con l’ingresso in Ue della Slovenia e quello, imminente, della Croazia, ma dovevamo chiedere un’ammenda, e non solo simbolica. Perché mai, di fronte alla caduta del paese comunista che non riconosceva la proprietà privata, tanto la Slovenia quanto la Croazia hanno fatto leggi sulla denazionalizzazione che prevedono la restituzione del bene o dell’equivalente a chi ne era stato privato dal regime comunista, ma solo per i cittadini sloveni o croati?

In prospettiva del prossimo ingresso in Europa della Croazia l’Italia riuscirà a mantenere fermezza su questo punto?

Con il precedente della Slovenia, che è entrata senza restituire un mattone, sarà molto difficile. L’Italia, che li ha riconosciuti quando si sono proclamati Stati sovrani e li ha aiutati a entrare in Europa, avrebbe dovuto tenere un atteggiamento più dignitoso, se non altro pretendendo almeno un gesto simbolico. Invece, non ci sono stati praticamente nessuna tutela per i pochi italiani rimasti in quelle terre e nessun riconoscimento per quelli andati via. La Ex-Jugoslavia avrebbe potuto restituire quello che era possibile, magari in parte, o fare almeno qualcosa di simbolico. Di tutto questo, invece, non c’è stato niente: nessuna tutela per gli italiani rimasti là, nessun riconoscimento per quelli andati via. Almeno ora c’è questo “Giorno del ricordo”,  una riflessione sulla memoria comune degli italiani.

In Alto Adige, per esempio, è molto diversa la condizione di tutela delle minoranze da parte nostra…

Certo. Perché l’Italia in realtà è un paese – anche se per le vicende di questi giorni ci fa vergognare – di grandi tradizioni, un paease in cui la democrazia è anche praticata e non soltanto proclamata. È un’Italia in cui l’apertura verso le minoranze e la consapevolezza dell’arricchimento che queste possono portare è un fatto praticato e oggettivo: da tutta Europa riconoscono che i livelli di tutela, soprattutto in Alto Adige verso gli italiani di lingua tedesca, ma anche nella zona di Trieste verso gli italiani di lingua slovena, sono altissimi. Qui, al confine nord-orientale, per esempio, c’è un sistema che passa dalla Rai slovena alle biblioteche, dai finanziamenti che hanno sulle opere culturali, sportive, ricreative al sistema scolastico: tutte cose che dall’altra parte non esistono. È un dato oggettivo che mentre da questa parte del confine noi le minoranze le abbiamo trattate, come era doveroso, sempre benissimo – tanto che hanno assunto anche ruoli di guida e hanno una classe dirigente vasta – nella Jugoslavia prima e anche nei nuovi paesi, poi, come Slovenia e Croazia non è avvenuta lo stesso e gli italiani non sono quasi mai classi dirigenti, ma, perlopiù, la classe più povera. Sulla carta, infatti, si affermano una serie di principi che poi, purtroppo, si perdono nella messa in pratica.

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