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08ago/15.14 – La bimba con la bambola, simbolo dell’Esodo

da Il Piccolo del 7 agosto 2011

 

Una bimba e la sua bambola, grandi e piccole allo stesso modo, sedute con sperdimento fra le valigie. Una foto può benissimo raccontare la storia, ma chi saprà mai il prima e il dopo di quello scatto fortunato, ma occasionale? Ecco oggi rivelato il romanzo di un’immagine diventata, come altre, famosa. Ritratto momentaneo dell’esodo istriano. Pubblicato sul nostro giornale negli anni ’50, come fatto di cronaca. Riproposto in mostre anche recenti. Senza che fosse svelato il destino di quella bimba, della sua famiglia, della bambola da abbracciare come se fosse il mondo cui restare aggrappati, mentre la nave era già pronta a partire per un luogo lontano e misterioso.

 

La bambina che allora aveva sei anni scarsi oggi è una signora di 60. L’abbiamo ritrovata. Si chiama Rita Casseler Tosatti e vive a Trieste: «Era il 1957 quando fu scattata quella fotografia. Eravamo alla Stazione marittima in attesa di imbarcarci, i miei genitori e i miei due fratelli, sulla “Saturnia” che ci avrebbe portati a New York, da dove saremmo arrivati fino in Canada, la nostra meta. Un fotografo mi notò, forse perché avevo quella grande bambola, e mi disse: “Puoi venire un attimo?”. Mi portò con sé, mentre mia madre spaventata urlava, ma poi capì che voleva solo una foto. Che uscì sul “Piccolo”. Mio zio, rimasto a Trieste, ci spedì il ritaglio e poi chiese a Giornalfoto la copia, che ho sempre conservato».

 

La storia dei Casseler è uno dei centomila romanzi di triste avventura da esuli, tutti uguali e tutti disperatamente diversi. «Sono nata a Buie – racconta la signora -, la mia era una famiglia di piccoli proprietari terrieri, la casa era stata costruita dal bisnonno, si produceva vino, si stava bene: tanto lavoro e zero politica. Ma nel 1955 nella zona B attorno a noi succedevano cose gravi, gente che veniva portata via… Nessuno ci fece mai niente, ma i miei decisero di partire prima che fosse troppo tardi».

 

Destinazione Trieste. Il taxi era preceduto dal camion con tutti i beni di casa, compreso il maiale chiuso in gabbia. «Ci avevano detto che al confine lo avrebbero comprato». E fu così che anche il maiale ebbe la vita accorciata per via della politica. «Al confine, dove c’era scritto “Repubblica italiana” – ricorda Rita – io mi buttai per terra, decisa a non rialzarmi, volevo tornare a casa. L’autobus ci aspettava, mia madre mi sollevò di peso, io vomitai per tutto il tragitto. Avevo 4 anni e mezzo».

 

A Trieste la famiglia restò nel campo profughi di Valmaura per un anno e mezzo, «in una baracca 6 metri per 6, coi letti a castello. Mio padre trovava solo lavori saltuari, mia madre era incinta, si seppe che il Canada aveva richiesto manodopera, e dunque la decisione fu presa». La foto precedette una settimana di viaggio devastato dal mal di mare, ma allietato dalla salita a bordo del futuro papa Giovanni XXIII. «A Vancouver ci portarono nella zona italiana, mia mamma s’era messa addosso i gioielli, e il poliziotto le prese la collana e diede un morso al ciondolo. “Oro vero” disse. Non era un furto, ma una raccomandazione: “Nascondere. Potreste essere derubati”».

 

Prima stazione, una stanza in affitto senza uso di cucina, dunque pane e latte a pranzo e a cena. «Quando mia madre andava a chiedere alloggi tutti rispondevano: “No children, niente bambini”. Mamma era sarta e andò a lavorare in una fabbrica. Io finii all’asilo cinese. In quelli canadesi non ci volevano. Non capivo una sola parola. Ma senza una casa non si poteva stare e dunque ecco la drammatica decisione: noi saremmo tornati a Trieste, mio padre sarebbe rimasto a Vancouver, era entrato a lavorare nelle ferrovie. Non potevo sapere che l’avrei rivisto appena 5 anni più tardi. Quando sbarcò io non lo riconobbi».

 

I pianti dell’addio. La sosta a New York «in un albergone». Un’altra traversata. Primo alloggio a Trieste in un piano della villa che i Quarantotti Gambini avevano messo a disposizione dei fuggiaschi. Poi destinazione Silos. E intanto era nato il terzo figlio dei Casseler. «Restammo per 5 anni in un box di 4 metri per 4, ma almeno c’erano bambini con cui giocare» rammenta la signora. Al ritorno del papà la prima casa Iacp, poi la casa di proprietà. A ogni trasloco, traslocò anche la foto: Rita e la sua bambola, quattro occhi stupiti dalla vita.

 

Gabriella Ziani

 

(la foto della vicenda raccontata e l’immagine di oggi della protagonista – foto Giovannini per Il Piccolo)

 

 

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