Mario Andretti come pilota automobilistico ha vinto tutto ed è una leggenda di questo sport. È stato uno dei pochissimi a trionfare sia nella 500 Miglia di Indianapolis che in Formula 1. Si aggiudicò, infatti, il titolo di campione del mondo in F.1 nel 1978 alla guida della Lotus modello 79. Quell’anno vinse sei Gran Premi e ottenne otto pole position: un binomio macchina-pilota imbattibile. Il palmares agonistico di Mario Andretti è veramente impressionante.
Complessivamente ha disputato 131 Gran Premi, ne ha vinti 12, è salito 19 volte sul podio, ha conquistato 18 pole position e ha totalizzato per 10 volte il giro più veloce. Nel 1984 ha vinto il titolo nella Formula Usac gareggiando per la scuderia dell’attore Paul Newman. Dal 2005 è stato inserito nell’Automotive Hall of Fame, che raggruppa le più importanti personalità al mondo che si sono distinte in campo automobilistico. Insomma, un personaggio mitico, acclamato come il pilota del secolo, che abbiamo voluto incontrare. Anche perché Mario Andretti è profondamente legato alle nostre terre. È, infatti, istriano, precisamente di Montona.
Lei è nato a Montona, nelle sue vene scorre sangue istriano. Che ricordi conserva della sua città natia?
“I ricordi che serbo di Montona sono di un mondo straordinario. Sarà per l’impianto medievale del paese, la magia di sostare lungo le mura ad ammirare la valle del Quieto, l’atmosfera emanata dalle pietre delle case. I miei ricordi sono un ventaglio di diverse emozioni, molte delle quali sono tristi. Rammento perfettamente quel giorno del 1948, a otto anni, quando assieme ai miei genitori, Rina e Alvise Luigi Andretti, abbandonavamo per sempre Montona. Era una giornata di pioggia battente e i mobili accatastati sul camion l’uno sull’altro erano completamente fradici dalla pioggia. Rievoco anche le reazioni della gente, l’intero paese era in lacrime. Si trattava di scegliere: o rinunciare a essere italiani, oppure rimanere in Istria e sottomettersi al potere comunista. Ai miei, che erano una famiglia borghese dedita all’esportazione di vino e farina, il comunismo non andava proprio a genio e volevano essere cittadini italiani. Così, lasciando tutto, ripararono prima a Lucca, nel campo profughi, e poi emigrarono negli Stati Uniti d’America”.
Parla ancor sempre il dialetto istriano?
“Assolutamente, mi diverto a parlarlo con mio fratello gemello, Aldo, e mia sorella, Anna Maria. È una tradizione di cui andiamo molto fieri e che tramandiamo alle nuove generazioni. Una costante a casa mia”.
La sua famiglia ha provato sulla propria pelle la tragedia dell’esodo. Come si è rapportato a tale fardello? Nutre rancore contro coloro che espropriarono i beni della sua famiglia costringendola a lasciare la Jugoslavia?
“Il tempo passa e le ferite guariscono. Non nutro alcun rancore. Però rammento la prima volta che ritornai a Montona. Era il 1966 e giunsi nella cittadina istriana dopo la corsa fatta alla 24 Ore di Le Mans. Rievoco perfettamente il rancore che m’invase passando il confine italo-jugoslavo. Alla frontiera fui perquisito dalla milizia, con la stella rossa sul berretto. Era un risentimento dovuto principalmente alla situazione dei miei genitori di come rimpiangevano Montona, la loro casa, di come furono cacciati da quella terra a cui i miei erano così attaccati. Nel 1988 riuscii a portare a Montona anche mio padre. Da Piazza Andrea Antico guardavamo i campi con i vigneti che un tempo appartenevano alla nostra famiglia Ghersa. Era orgoglioso di ciò che avevamo ottenuto negli States, nonostante tutto quello che avevamo lasciato a Montona. Ossia, ettari di vigneti e la trattoria ‘Alla stazione’, che era stata di mia nonna e dove mia madre, da bambina, aveva imparato a cucinare. Le generazioni passano e non posso nutrire rancore contro quelli che abitano ora il borgo istriano. Oggidì, lo dico con il cuore in pace, non nutro rancore contro nessuno”.
Ha mai chiesto la restituzione dei beni immobili lasciati dalla sua famiglia in Istria?
“I miei genitori l’hanno fatto diverse volte, però senza alcun risultato. Poi, inevitabilmente, hanno lasciato stare. La casa della mia famiglia è ancora in piedi. Un giorno ho bussato alla porta di quella casa, che tecnicamente è ancora mia. Volevo visitarla per rivedere il luogo a cui sono legato. Ci ho trovato dentro una signora. Non volevo fare questioni. Probabilmente lei avrà avuto i suoi problemi. Ero pronto a ricomprare la casa dei miei genitori e ho consultato gli incartamenti. Sono risultate proprietarie cinque persone, di cui nemmeno una mi era nota. Su uno dei muri hanno messo, nel 2004, una lapide con la scritta bilingue italiano/croato, in cui si legge che lì è nato Mario Andretti. Tre anni fa, il sindaco di Montona, mi aveva confessato il desiderio della municipalità di trasformarla in una casa museo in onore delle mie imprese automobilistiche. Ero molto orgoglioso ed emozionato dell’idea, però poi, e non lo il perché, non si è fatto nulla”.
Riflette mai di cosa ne sarebbe stato della sua vita se fosse rimasto in Istria?
“Non è un pensiero costante che mi affligge, ma spesso ci ragiono sopra. Non credo che in Istria, nella Jugoslavia comunista degli anni ’50, avrei potuto intraprendere la carriera di pilota automobilistico, a differenza della possibilità che ho avuto negli States. Sono dell’avviso che l’ambizione per correre in macchina sia qualcosa che si possiede sin dalla prima giovinezza. Ritengo inoltre che la passione, la dedizione e il carattere che occorrono per diventare piloti professionisti sono cose che non si possono insegnare”.
Che cosa pensa della Comunità Nazionale Italiana in Croazia e in Slovenia, ossia la popolazione italiana che dopo la Seconda guerra mondiale optò, alcuni di propria iniziativa e altri no, di rimanere nelle proprie terre natie?
“Nei confronti della Comunità provo grande stima e affetto, ma anche tristezza per il nostro popolo che sta inesorabilmente scomparendo. Con il trascorrere del tempo, rimaniamo sempre di meno. Anch’io nutro la volontà di difendere i valori e le tradizioni legate alle nostre terre”.
Qual è il segreto di Mario Andretti, l’eroe dei due mondi?
“Non c’è un segreto. Fin da giovanissimo ero spinto dalla passione per i motori e la velocità. Diventare un pilota automobilistico era un pensiero fisso. Per me non esisteva nient’altro. Ho fatto tutto quello che era nella mia facoltà per raggiungere questa meta. Alla fine ci sono riuscito. Il mio segreto, se così lo possiamo definire, è che non ho avuto mai un altro piano nella mia vita”.
Le mancano la velocità, i motori, le corse?
“Senz’altro. Mi hanno accompagnato tutta la vita. Non si può dimenticare un amore che ti ha retto in vita per anni. Proprio a Montona ho conosciuto l’ebbrezza della velocità. Con Aldo, il fratello gemello, correvamo con i carretti che avevamo fabbricato da soli, giù per la rapida discesa che da Montona porta alla valle del Quieto. Sempre nel borgo istriano vidi la prima automobile, che mi ha fatto battere il cuore. Era una splendida Ford. Sono rimasto nel mondo della competizione automobilistica fino all’età di 54 anni. L’ultima volta che ho corso ufficialmente è stato nel 2000, alla 24 Ore di Le Mans, piazzandomi sedicesimo in assoluto. Avevo 60 anni. Oggi, anche se non partecipo attivamente nella guida, seguo le corse e i motori. Ogni tanto mi confronto pure anche nelle prove. Mio figlio Michael gestisce una scuderia con quattro piloti e io gli vado dietro”.
Ritorna spesso a Montona? E quando lo fa cosa prova?
“Quando riesco ci torno volentieri. Sono passati tanti anni, tuttavia molte cose sono rimaste identiche. Per me è sempre una grande emozione ritornare a rivedere la cittadina, i borghi, ammirare il panorama dalle mura. Assaporare quel profumo, assaggiare i sapori della tipica e ricca cucina montonese. L’anno prossimo spero di arrivarci assieme a Michael, che è l’unico dei miei tre figli (gli altri due sono Jeff e John, nda) che non è mai stato a Montona. Io, ogni volta, provo la stessa emozione: torno in quella terra a cui i miei erano così attaccati e che riesce a trasmettermi una sentimento d’armonia e di orgoglio”.
Qual è l’aspetto della civiltà istriana – sia che si tratti di storia, cultura, paesaggio, enogastronomia – che le è più vicino?
“L’Istria ha una moltitudine di importanti patrimoni da offrire. A partire da quello artistico fino a quello storico culturale. Di tutti questi aspetti, penso che il più vicino a me, sia l’enogastronomia. Anche perché mio padre era vinicoltore, possedeva diverse tenute, e produceva pure della farina che, assieme al vino, esportava. I miei nonni, inoltre, erano i proprietari della trattoria ‘Alla stazione’, molto frequentata all’epoca. Mia figlia Barbara ha ereditato da mia nonna un quaderno di ricette. Così, a Nazareth, mangiamo le seppie nere e gli gnocchi con il sugo di carne. A Natale, le frittole. Riusciamo così a mantenere viva la tradizione culinaria delle nostre terre”.
I suoi figli, i suoi nipoti sanno qualcosa dell’esodo, della storia dell’Istria?
“Assolutamente. Sono tutti al corrente dei fatti, delle tragedie che hanno interessato la mia famiglia. Ho portato a Montona figli e nipoti, perché vedessero da dove veniamo”.
Conosce qualche istriano negli USA?
“Sono molto amico con Lidia Bastianich, cuoca e scrittrice, nota soprattutto per i programmi televisivi di cucina che vanno in onda sulle televisioni statunitensi. Nella sua catena di ristoranti propone dei cibi tipici della nostra zona. Ho trovato montonesi per tutto il mondo: dall’Australia, all’Africa fino in Argentina, dappertutto. Ma, purtroppo il tempo passa e rimaniamo in pochi. Ciò nonostante il nome viene tramandato”.
Gianfranco Miksa
“la Voce del Popolo” 22 novembre 2012