ANVGD_cover-post-no-img

A proposito di dialetti (CDM 02 feb)

Riflessioni: concentrare le energie per conservare e tramandare
il dialetto istro-veneto o la lingua italiana?

Ferve in questo periodo di tempo la riflessione e il dibattito sui dialetti, sollecitati anche dalla legge sul riconoscimento del dialetto friulano come lingua. E’ un discorso che interessa anche noi esuli giuliani, fiumani e dalmati e la conservazione del nostro dialetto nelle nostre terre d’origine, per cui ci ho riflettuto anch’io, come un’esule senza una particolare competenza linguistica, storica, sociologica o d’altro genere.

Il dialetto è comunemente inteso come la lingua che il bambino sente risuonare già dal ventre materno, quella con cui la mamma si rivolge a lui fin dalla nascita, quella della cerchia familiare e parentale, del paese,… quindi la lingua degli affetti, del cuore, ma anche la lingua materna per eccellenza: quella in cui si pensa!

Ma non è la stessa cosa se una famiglia sceglie di parlare ai figli nella lingua nazionale? E’ la scelta che ha fatto la mia famiglia per figli e nipoti.

Il dialetto non è lingua veicolare e io penso ad una lingua soprattutto, anzi esclusivamente, a uno strumento per comunicare con gli altri, più altri possibile… se ne avessi la possibilità stimolerei e favorirei l’apprendimento di un’unica lingua per gli uomini viventi sulla terra; e non è ciò che sta gradatamente e spontaneamente avvenendo con la lingua inglese?Eppure, per quanto riguarda il mondo della diaspora, il dialetto istro-veneto svolge anche una funzione veicolare perché, quando parliamo fra noi esuli, indipendentemente dal luogo d’Italia o del mondo in cui abbiamo fissato la nostra dimora dopo l’esodo, parliamo nel nostro dialetto e non in lingua italiana, inglese o spagnola o in dialetto genovese, siciliano, sardo. Mi accade anzi, quando parlo al telefono con le mie amiche sparse per il mondo, che a un certo punto passiamo dalla lingua italiana al dialetto e, se ciò non avviene così, spontaneamente, accade immancabilmente che quella che vive più lontana dalle nostre terre a un certo punto mi dica:
“Ma parlemo in dialeto, che go così poche ocasioni de parlarlo”; e ancora, quando vengono a trovarmi i nipoti australiani, è sempre in dialetto istro-veneto che comunichiamo, trasmessogli dalla madre di Fasana e dal padre di Dignano. Ed è sempre in dialetto che parliamo anche con gli amici rimasti al paese natio.Per quanto riguarda la minoranza degli italiani residenti nelle terre cedute all’ex Jugoslavia si tratta certamente pure di un elemento “forte” di identità e penso anche di un approccio di tipo più emotivo che comunicazionale. Per essi, e per tutti coloro che sostengono e credono nella tutela, conservazione e consegna ai posteri dei dialetti, essi sono più un valore che un mezzo di comunicazione.

Io però mi domando se i dialetti in generale – e in particolare quello istro-veneto, che è l’oggetto della mia riflessione – che sono qualcosa di vivo e mutevole, come tutte le lingue ma ancor più di quelle nazionali essendo lingue parlate per eccellenza, sia da conservare e tramandare e giustifichi l’impegno necessario per farlo o se non sia meglio concentrare le nostre risorse ed energie, nel nostro specifico caso, nella conservazione e diffusione nelle nostre terre di origine della lingua italiana.

Io sono favorevole alla seconda soluzione anche perché non è facile conservare e diffondere un linguaggio destinato, fra gli esuli, all’estinzione con loro e al massimo coi loro figli e con un destino probabilmente analogo fra gli italiani rimasti in Croazia e Slovenia, dove viene sempre più contaminato e infarcito con termini della lingua dominante.

E come si potrebbe conservare un dialetto usato da una minoranza di persone, per noi importante ma che non ha il valore formativo riconosciuti al latino e al greco antico studiati nei nostri licei? Una lingua si conserva e tramanda specie attraverso gli scritti e, anche se una certa letteratura in vernacolo esiste – penso alle poesie di Biagio Marin e di Aldo Policek, alla vasta produzione di commedie in dialetto di Nella Marzari – essa non è certo diffusa. Si dovrebbe quindi diffonderne la conoscenza facendo pubblicare/ripubblicare le loro opere e quelle di altri autori dialettali, nell’ottica della conservazione e diffusione di un valore, com’è la nostra cucina tradizionale o i mestieri di un tempo.

Ma io faccio sempre una gran fatica a considerare un linguaggio qualcosa di diverso da uno strumento di comunicazione. Oltretutto, la nostra epoca non è l’epoca dei dialetti, destinati alla comunicazione fra cerchie ristrette di persone, perché il nostro è il tempo della comunicazione globale. E’ la ragione per cui essi stanno cadendo ovunque in disuso a favore delle lingue nazionali e, nel mondo, in particolare a favore della lingua inglese, ormai lingua veicolare per eccellenza.

E penso ad una coppia poco più che trent’enne con due figli, lei italiana, lui tedesco e residenti in Gran Bretagna che hanno scelto di parlare ai bambini lei in italiano, lui in tedesco mentre l‘inglese, naturalmente, l’hanno appreso nell’ambiente che frequentano. Questo tipo di situazione sarà sempre più diffusa nell’avvenire.

Carmen Palazzolo Debianchi

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.