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Toniolo: profugo dall’Istria, deriso in Veneto (Giornale di Vicenza 13 mag)

È altamente doveroso celebrare il "Giorno del ricordo” ogni anno per rammentare agli italiani e soprattutto ai giovani, l’immane tragedia degli anni 1943-1945 in terra Istriana e Dalmata, regioni d’Italia abbandonate, tradite e dimenticate a seguito del nefasto 8 settembre.

Ricordiamo tutti quegli italiani che, per coerenza ideale e per dignità morale, sono stati martiri innocenti di un genocidio etnico che rimarrà negli annali della storia come uno dei più brutali crimini mai commessi dall’uomo. Affinché non abbiano più a ripetersi tali atrocità, è giusto documentare le soppressioni di massa, i massacri di intere famiglie, i soprusi e le violenze, le sparizioni e le torture, le foibe e i campi di concentramento, di cui si sono resi colpevoli i partigiani di Tito, premiati da Inghilterra e Stati Uniti, gratificati e ricompensati per tutto ciò dai Trattati di Parigi (1947) e di Osimo (1975).

Tali "crimini" stanno a dimostrare da una parte la ferocia del comunismo, dall’altra il rigurgito del panslavismo, nonché lo spirito di vendetta dei cosidetti "alleati" e, infine, la "compiacenza" dei comunisti italiani che non solo fraternizzarono con i partigiani titini, ma barattarono i nostri confini orientali.

Il 26 aprile 1945, Churchill ebbe la sfrontatezza di rispondere a un messaggio del Maresciallo Tito in questi termini, che confermano la nota avversione degli inglesi all’italianità dell’Istria: "In questo momento di vittoria, ricordiamo con orgoglio la superba resistenza dei popoli jugoslavi"… "e il loro contributo alla vittoria finale e decisiva sul nemico" (dal Corriere Veneto del 27 maggio 1945).

Perché Tito quando era in vita, non ha mai ammesso i delitti da lui compiuti? Perché oggi, dopo tante agghiaccianti testimonianze, il Maresciallo non viene storicamente destabilizzato come è avvenuto per Stalin e, in tempi più recenti, per Millosovich ?

Se venisse espresso un severo giudizio anche su questo criminale di guerra, ne guadagnerebbero la verità, la giustizia e la serenità di tanti esuli, mai giustamente riconosciuti. Tale "verdetto" restituirebbe un più quieto riposo ai tanti martiri e a tutti coloro che sono caduti combattendo per diferndere i nostri confini.

È giunto il momento di pronunciare una più esplicita e definitiva condanna da parte dei più alti poteri politici nazionali e internazionali, proprio in occasione della "giornata del ricordo", anche nella prospettiva di più larghe intese europee e di possibili alleanze, per giungere così a una comune concordia e alle necessarie collaborazioni. L’intero processo di revisione storica deve iniziare con un atto di buona volontà da parte degli attuali governanti, eredi di tanto squallido passato che va rimediato con radicali iniziative.

È altrettanto doveroso ricordare il dramma dell’esodo quando dopo l’8 settembre 1943 (prima ondata titina in Istria e Dalmazia) e poi dopo il 25 aprile 1945 (seconda ondata, questa volta sino a Trieste e Gorizia) più di 350.000 cittadini italiani dovettero abbandonare le loro terre e le loro case per rifugiarsi nelle città e nei paesi d’Italia.

Dal dicembre 1946 al settembre 1947 abbandonò Pola il 90% della popolazione e a Fiume solo nel mese di gennaio del 1946 20.000 persone avevano già lasciato le loro case per arrivare qualche anno dopo a 35.000. Un esodo biblico! Un esilio non capito !

Infatti non trovammo l’abbraccio caloroso della Patria ma la gelida indifferenza e il rifiuto, spesso l’opposizione e il diniego anche ufficiale alla nostra permanenza nel territorio nazionale, quasi fossimo degli apolidi o degli zingari. Fummo ignorati, vilipesi, denigrati, definiti volgarmente gente di confine, privati di ogni forma di solidarietà e pietà umana, oggi largamente elargite agli extracomunitari.

In un primo tempo non fummo degni neppure della nazionalità italiana, nè quindi dell’iscrizione anagrafica, della cittadinanza e della residenza. Per noi era stata inventata la "residenza provvisoria"!

Le amministrazioni comunali ci ritenevano semplicemente degli sfollati, come attesta la dichiarazione del 14 dicembre 1945 dl Comune di Venezia. Questo stato di cose durò sino alla risoluzione (Resenje) del 14 dicembre 1949 da parte della Narodna Republika Hrvatska (Repubblica Popolare di Croazia) con un decreto che porta la firma del "Ministar L.Krajacic" che tutto avvalla in nome di un sedicente "Narodni odbor" (Consiglio Popolare) di Opatija (Abbazia) compreso il pistolotto finale: "Smrt fasiznu – Slodoba narodu!" (Morte al fascismo – Libertà ai popoli!").

Certamente , con l'esodo potemmo riscattare la nostra libertà individuale, sfuggendo alla dittatura titoisto-staliniana, ma pagando il prezzo della rinuncia a vivere nella nostra Terra sotto il tricolore d'Italia. Sotto l'apparente "opcija" (opzione) per la cittadinanza italiana, di fatto venivamo espulsi dal nostro territorio nazionale senza possibilità di appello e nella forma più subdola, più illegittima e più ipocrita, più disumana e più crudele, quando invece, era necessario richiamarsi all’autodeterminazione dei popoli.

II calvario dell'esule istriano e dalmata era iniziato nel settembre del 1947 (D.L. 3 settembre 1947) quando il Governo ci impose di presentare formale domanda ai Prefetti per il riconoscimento della qualifica di profugo, per entrare così nella società civile italiana. La relativa attestazione del Prefetto di Vicenza arrivò solo nel febbraio del 1949 e nel frattempo eravamo semplicemente dei clandestini. Il placet alla mia cittadinanza italiana lo dette solo il Maresciallo Tito per gentile concessione… con la sua Risoluzione in data 14 dicembre 1949. Un lungo iter burocratico sotto il quale si nascondeva il disinteresse e l'inganno. Un’imperdonabile umiliazione per gli esuli e un vergognoso compromesso per il Governo Italiano. Si considera che la nostra presenza sul suolo istriano e dalmata in virtù di una guerra sofferta e vittoriosa sancita dal diritto e dai trattati internazionali nello stesso documento in questione diviene irrispettosamente un soggiorno sul territorio appartenente ala Repubblica Federale Popolare Jugoslava, almeno dal 10 giugno 1940.

Per rispettare la tanto conclamata libertà dei popoli era obbligatorio invece un plebiscito che chiamasse tutti i cittadini della Venezia Giulia alla giusta decisione.

Se tutto aggravava in maniera sensibile il nostro stato psicologico, l'indifferenza, la noncuranza, il distacco delle autorità ci mettevano in uno stato di inferiorità e di marginalità molto spesso nell’indigenza, privi di casa, di assistenza sanitaria, di sussidi e soprattutto di lavoro. L'Amministrazione statale era insensibile al nostro dolore e al nostro pianto, i Comuni ignoravano il problema, la Chiesa non assunse alcuna iniziativa, la Scuola non capiva la condizione degli studenti "profughi" che avendo cambiato scuola o interrotto gli studi, si trovavano in gravi difficoltà. Un clima avverso, polemico e fazioso ci circondava. La propaganda e la demagogia del Pci e l'attivismo dell 'Anpi ci mettevamo in cattiva luce e ostacolavano ogni iniziativa. È stato il mio caso al Ginnasio Marco Polo di Venezia negli anni difficili del dopoguerra (1945-1949) quando all'uscita dalle lezioni i miei compagni, infarciti delle idee dei loro padri , così mi canzonavano: "Istrian non ti si bon de parlare italian". "Fiuma
n mezzo ladro e mezzo can" ecc. ecc. Gli adulti non erano di meno nelle loro invettive: «Che siete venuti a fare qui in Italia? Non potevate stare a fiume? Qui a Venezia ci portate via il pane!». I partigiani comunisti italiani che in piazza San Marco marciavano a braccetto con quelli slavi non ci potevano vedere e ci dicevano durante le manifestazioni per Trieste Italiana: «Siete profughi dalla Jugoslavia» (si badi bene non dicevano dalla Venezia Giulia); oppure «La c'è giustizia, tornate la dal maresciallo Tito, Fascisti!».

C' è stato un momento in cui l'eventualità di un rigetto forzato era nei piani diabolici del comunismo staliniano titoista. Orribile a dirsi! Infatti si era in regime di Kominform: quando l'Urss in combutta con Tito minacciava l'Italia di invasione progettando piani di intervento militare; quando si ridisegnavano i nostri confini sino a includere nella slovenia veneta Trieste e Gorizia (persino Venezia !); quando partigiani titini e partigiani italiani cantavano insieme "Druge Tito, liubisciza ne da Trsto ne Gorizia"; quando infine si affermava e si scriveva "Naprei ne Taljament Trist je nas"; quando su tutti i muri comparivano le scritte "Zivio Tito Zivio Stalin Zivio Narodna Armija". Non era improbabile che Togliatti (ministro della giustizia) e Nenni (ministro degli esteri sino al 1947) decisero di ubicarci nell' ambito della nuova geografia politica.

La mia famiglia dopo essere stata accampata per alcuni mesi in un umido stanzone insieme ad alcune famiglie di profughi dalla Libia, fu ospitata in una casa disabitata e tutta spoglia. Dalla Todt tedesca potemmo avere cinque brande militari e dal parroco della chiesa di S. Antonio del lido di Venezia alcuni materassi, un tavolo e cinque sedie. Buone famiglie ci fecero omaggio di una stufetta a legna. Terribili inverni sino al 1949. Fame e freddo!

Per riscaldarci ci dovevamo servire degli sterchi raccolti qua e la e di quei detriti di legno che le onde del mare portavano a riva. Le indimenticabili suore dell'istituto cardinale La fontaine del lido di Venezia – dove mia madre insegnava – ci ospitarono a pranzo per più anni. Per avere un po' di viveri dovemmo ricorrere a un nostro zio emigrato in Brasile che ci mandò alcui pacchi di cibo conservato. Da parte di nessuno ci veniva un aiuto o una parola di conforto fatta eccezione per il "comitato per la Venezia Giulia e Zara" che aveva la sua sede in una buia cella del palazzo in piazza San Marco accanto alla biblioteca marciana. Ogni venerdì mi recavo a ritirare un cestino di vivande (qualche uova, un chilo di farina bianca, qualche dolciume).

Presso questo nostro sodalizio generoso e coraggioso, in un'epoca in cui almeno a Venezia si potevano acquistare i generi alimentari solo al mercato nero e a prezzi impossibili.

Deve essere ricordato alle nuove generazioni che i comunisti italiani, manovrati da Palmiro Togliatti, accolsero con slogan irripetibili con minacce e violenze le navi che attraccavano dopo il 25 aprile 1945 nei porti di Ancona e di Venezia cariche di esuli istriani.

A Bologna il P.C.I. ebbe la spudoratezza di organizzare uno sciopero per impedire ai profughi di scendere dal treno per un breve ristoro. Atti di sabotaggio furono in quell'epoca compiuti anche verso un treno speciale carico di famiglie istriane e diretto a La Spezia.

In quel triste periodo della storia d'Italia fu persino oltraggiata la bara con i resti del martire Nazario Sauro.

Si istituì un codice penale speciale per ordine del ministro degli interni , on. Scelba e furono prese le impronte digitali a tutti gli esuli istriani e dalmati che giungevano a Roma come fossimo dei delinquenti della peggior specie. Anche il vescovo di Fiume, mons. Camozzo, fu sottoposto all'umiliante controllo di polizia.

Se tutto questo accadesse oggi nel nostro paese nei confronti degli extracomunitari che direbbero e che farebbero i partiti di sinistra e i sindacati ?

Questa fu la nostra seconda tragedia: l' umiliazione e il sospetto, l'incomprensione e l' offesa, l' emarginazione e la violenza. Gravava sull'intera mia famiglia la colpa di essere profughi della Venezia Giulia, A scuola non mancava giorno che i bidelli, i miei compagi all'uscita, anche qualche professore di sinistra mi dicessero senza alcuna pietà «sei un profugo (esserlo dalla Jugoslavia era un reato), non sei cittadino veneziano, non sei italiano. Potevi rimanere in Istria con i nostri compagni comunisti, qui non c'è posto per voi». Nell' aprile del 1945 al liceo ginnasio Marco Polo fui preso a schiaffi dal figlio di un ex sindaco di Venezia fervente comunista: «Profugo mangia sbaffo nemico del proletariato, nemico degli ebrei. Siete scappati per paura perché avete fatto solo del male al popolo jugoslavo».

Negli anni 1946 e 1947 fui aggredito dai partigiani comunisti con spranghe e bulloni di ferro. Ero in piazza San Marco con gli studenti degli Istituti superiori per manifestare il ritorno di Trieste all'Italia. In risposta al nostro entusiasmo i comunisti rispondevano: «Sono profughi istriani, bisogna farli fuori, vogliono la guerra, le foibe sono invenzioni, viva Tito, viva Stalin!».

Noi gridavamo con tutta la nostra forza: «Viva Trieste italiana, viva l'Istria e la Dalmazia italiane! Le foibe la vostra vergogna!».

E mentre i giovani testimoniavano la verità storica nelle scuole e nelle piazze, le nostre famiglie, i nostri vecchi e i nostri bambini languivano nei cosidetti campi profughi (più di cento in Italia). Erano ubicazioni precarie, autentici ghetti, abbandonati dalle autorità, senza assistenza socio-sanitaria, mai confortati da un gesto o da una parola di comprensione e di pietà.

Tra l'indifferenza e il rifiuto degli immemori, c'erano riamsti soltanto i nostri ricordi e l'ardente nostalgia del tempo vissuto; di quello felice e anche di quello trascorso nella sofferenza. «La nostalgia – scrive il Pindemonte – è una dolce ninfa, la sola chance di procurarti un po' di felicità». Ed era ed è ancora così per noi. Ci sentivamo feriti e traditi una seconda volta, mortificati e senza futuro, in una patria fattasi improvvisamente straniera.

L'opzione fu per Belgrado una sfida e una provocazione tendenziosa, poiché Tito ben sapeva che nessuno degli esuli in Italia e nessuno degli italiani ancora residenti in Istria o in Dalmazia avrebbero scelto di vivere nella sua Federazione Jugoslava.

Per il governo di De Gasperi, Nenni e Togliatti fu un vile stratagemma e non mai una soluzione leale e sincera, poiché quei governi social-comunisti di allora non avrebbero versato una lacrima nell'ipotesi assurda che avessimo optato diversamente.

Per noi istriani e dalmati, l' opzione per la cittadinanza italiana fu un atto di fede nella Patria, un giuramento di fronte alla storia, una scelta morale e politica, un gesto d' onore e d' amore per le vittime, una corale manifestazione di sdegno per le innominabili azioni compiute nei confronti di tanti nostri fratelli connazionali.

*Esule da Laurana, provincia di Fiume

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