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Zandel: ”testimoni muti” dell’esodo sospesi tra due mondi (Il Piccolo 27 gen)

di PIETRO SPIRITO

È una storia dell’esodo, certo, ma è soprattutto la storia di una crescita e di una personale presa di coscienza l’ultimo libro di Diego Zandel, ”I testimoni muti” (Mursia, pagg. 213, euro 15,00), che ha come fuorviante sottotilo ”Le foibe, l’esodo, i pregiudizi”. Non si parla di foibe, nel libro di Zandel, e nemmeno di pregiudizi, intesi come narrazione di giudizi imposti a priori e subìti, veleno per tanta trattatistica memoriale. C’è invece l’esodo, tutto quanto, in questo ”memoir” che ha il passo di un romanzo e i contenuti di un saggio storiografico, dove si racconta di un percorso, non privo di ostacoli e di dolore, verso il superamento delle contrapposizioni imposte dalla Storia a favore della più ricca a articolata complessità di chi affonda la proprie radici in una terra di frontiera.

Romanziere, poeta e saggista Diego Zandel è nato il 5 aprile del 1948 all’ospedale di Fermo, nelle Marche, il nosocomio più vicino al campo profughi di Servigliano dove vivevano i suoi genitori, e dove lui avrebbe vissuto per tre mesi prima di trasferirsi a un altro e più grande campo, il Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. Italiano di nascita, dunque, ma figlio dell’esodo, essendo i genitori, entrambi ventunenni, fuggiti da Fiume all’indomani del Trattato di Parigi. E la sua, rievocata appunto ne ”I testimoni muti”, è la storia della seconda generazione dell’esodo, quella dei figli della diaspora, che hanno conosciuto i campi profughi ma sono nati e cresciuti in Italia, troppo presto per tagliare le radici con la terra d’origine, troppo tardi per sentirsi estranei nella nuova patria.

Il racconto di Zandel parte dall’arrivo della famiglia in Italia: sua madre, incinta, che spinta dalla disperazione va a Fermo a mendicare, ma poi non sopporta l’umiliazione e piuttosto patisce la fame. Lui, neonato in una culla ricavata da «una cassetta d’arance rivestita da una copertina». Il padre, che durante una protesta per la scarsità di cibo viene spintonato da un carabiniere e pagherà caro l’avergli dato del ”vigliacco”. La nonna, che alleverà il piccolo Zandel quando la madre dovrà stare due anni assente per curare la tubercolosi, parlandogli il dialetto della sua terra. E il campo profughi, il Villaggio, che è come un’isola «dove fuori dal suo perimetro esisteva un linguaggio diverso». È il mondo dei profughi sparsi per l’Italia, lontani dalle turbolenze del nuovo confine, ignorati se non addirittura osteggiati dai residenti delle regioni dove sono stati confinati, uniti dal sogno impossibile del ritorno, strumentalizzati dai politici, sospesi su un futuro più incerto e sicuramente diverso da quello che accomuna il resto degli italiani: «Tutta la vita si svolgeva nei padiglioni, compresa la scuola, materna ed elementare, che si avvaleva di molti insegnanti essi stessi profughi». È una comunità costretta a vivere ripiegata su se stessa, che organizza circoli e luoghi di riunione dove guardare tutti insieme l’unica tv che, e siamo nel ’56, annuncia la rivolta di Budapest alimentando la sempre più labile fiammella di un ritorno, se mai il comunismo dovesse cadere. Ma se anche il comunismo non cade, la nostalgia per la terra e gli affetti perduti vince su tutto. Cominciano così i primi, timorosi, momentanei ritorni.

Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta Diego Zandel ragazzino trascorre le vacanze a Fiume, ad Albona, dove ci sono gli zii, la casa dei nonni, Villa Jolanda, «quattro stanze, un soggiorno, un cucinino e una terrazza che si affacciavano sul mare e che sarebbero diventate, per sempre, la ’mia’ casa di Fiume, il luogo del mio ritorno». Così, in questo pendolarsimo stagionale – l’inverno a Roma, l’estate a Fiume – Zandel cresce con il piede in due mondi, con l’anima, i turbamenti le aspettative di qualsiasi adolescente e il crescente bisogno di capire, di orientarsi in quella sua «italianità spuria», con gli affetti divisi tra socialismo e neo-irredentismo, e la coscienza strattonata da due nazionalismi di segno opposto: «Fu un travaglio lungo raggiungere un’indipendenza e un equilibrio di giudizio, dopo un’intera adolescenza condizionata da una visione storica e culturale ispirata a un sentimento nazionalista di carattere irredentista, presente, se non addirittura pervasivo, in ogni aspetto della vita quotidiana».

Zandel racconta gli anni della sua giovinezza senza mai perdere di vista il contesto storico, aggiungendo storie a storie. La mitologia dei druži, i partigiani, l’onnipresenza di Tito, figure come quella di Oscar Piskulic, seminatore di morte, o personaggi di tutt’altro tenore come Osvaldo Ramous, allora «il più importante scrittore della minoranza», costellano il racconto di Zandel che passando attraverso una maturazione culturale coltivata in queste terre (la ”Trieste bohémien” degli anni ’50-’60 per dirla con Claudio Martelli) arriva fino ai nostri giorni, in cui ancora i nazionalismi croato e sloveno compattati dalle recenti guerre balcaniche «continuano a minimizzare, quando non a negare, altre verità storiche: a cominciare dalla ragioni dell’esodo e dalle dimensioni del vuoto demografico che esso ha provocato nella regione, al punto da sconvolgere gli assetti etnici e culturali secolari». Così, la vicenda di questo «testimone muto» diventa emblematica di quanti – e sono tanti – vorrebbero essere uniti sotto una stessa bandiera: «quella che, in una terra senza più confini, rappresenti i cuori e le vite di persone che si sono conosciute, stimate o persino amate, e che poi da altre bandiere sono state divise».

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