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Walter Macovaz, un contadino prestato all’Adriatico (Il Piccolo 13 set)

GENTE DI MARE
TRIESTE – Nella bottega di Walter Macovaz, un contadino prestato all’Adriatico
STORIE QUOTIDIANE VISSUTE IN MEZZO AL GOLFO
Ex docente al Nautico, esperto di costruzioni navali, liutaio, fautore del ritorno al lavoro manuale: il legno è la sua passione
«Meglio stare in cantiere piuttosto che in ufficio: stiamo abbandonando occupazioni che sono a misura d’uomo»

A due passi dal nuovo stadio, nell'ambiente più metropolitano che si può, è nascosta la bottega di Walter Macovaz, contadino prestato al mare, come lui stesso si definisce. Pochi metri quadrati che profumano di legno e colla, riempiti fino all'inverosimile di morsetti, sgorbie e raschietti di ogni misura, le pareti tappezzate di chitarre, mandolini, viole, contrabbassi e balalaike e al centro un antico banco da falegname sopra cui galleggia nell'aria dentro una rete, come uno stoccafisso, un piccolo squalo.

Docente fino a qualche giorno fa dell'Istituto Nautico, esperto di costruzioni navali con tanto di pubblicazioni, animatore di incontri e libri sulla cultura del mare con il Circolo istro veneto Istria, ufficiale della Marina da guerra, liutaio, appassionato fautore del ritorno al lavoro manuale, il legno la sua passione (così nota in città da essere chiamato dal miliardario russo Abramovic durante l'ultimo soggiorno triestino per un intervento all’interno del suo mega yacht): Macovaz è tutte queste cose insieme. E basta sentire la sua storia per capire perché. Figlio dell'Istria più profonda (è nato a Grisignana nel 1950), porta in sé le contraddizioni e lo straniamento, che tanto bene conobbe Tomizza, di chi ha lasciato quei luoghi per vivere sul mare, l'anima sempre divisa fra lo spirito contadino e la dedizione al sapere marinaro.

«Mio padre – dice – era un falegname quando arrivammo qui nel 1955. Cominciai a lavorare con lui ma dopo un po' mi prese la voglia di costruire barche. Così mi iscrissi al Nautico. Fu il primo impatto con le dottrine legate al mare. Un amore che non mi ha lasciato più».

L'emozione di lavorare il legno trasportata nella marineria fanno di Macovaz uno dei più strenui oppositori della plastica e un paladino del ritorno all'antico materiale per la costruzione delle barche. Fedele alla sua filosofia, ha ricostruito giorni fa a Veglia un remo di un'antica galera lungo dodici metri. E davanti alla sua bottega ha una catasta di legno di carrubo che vorrebbe utilizzare per partecipare al restauro del mitico Leone di Caprera, una goletta di 9 metri costruita nel 1879 in onore di Garibaldi e protagonista nel 1880 di una storica traversata atlantica dall'Uruguay all'Italia. «Le imbarcazioni in vetroresina si utilizzano per sette, al massimo otto anni – si accalora – ma le loro carcasse inquinanti sono indistruttibili. Il legno è un'altra storia, appartiene alla nostra cultura».

Già, la cultura del mare, quella che fece di Trieste la città degli squeri e dei cantieri, dei mercanti greci e turchi che trasportavano qui merci e ricchezza da tutto il Mediterraneo e costruivano palazzi e chiese orgogliosi della propria appartenenza, degli uomini delle Maldobrie, dei pescatori con batane e bazzere, dei marangoni e dei maestri d'ascia. «La vedo scomparire – osserva con amarezza – il mare non è visto più come una sfida, si usa. E la memoria di questo mondo se ne va, la pescheria trasformata in sala mostre, la nave scuola Borino sparita dal suo ormeggio e nessuno ha chiesto perché, le marine di cemento che avanzano. Ma ci appartiene tutto ciò? O fanno parte di noi il Pedocin, con le sue mamme e le nonne che portano figli e nipoti a piedi a fare il bagno, e i ragazzi che pescano ancora sui molti con la togna».

Non è un lamento sterile. Macovaz ha le idee chiare su come rinverdire cultura e economia del mare a Trieste. A partire dalle nuove generazioni di cui lui, docente al Nautico per 15 anni, è un profondo conoscitore. «È necessario rilanciare con forza l'impegno nel lavoro manuale. Bisogna far capire ai ragazzi che è meglio stare in un cantiere piuttosto che in un ufficio: lì si occupano le mani, si è più liberi di ridere e scherzare, anche di mandare al diavolo il proprio capo se si è fatto bene il proprio dovere. Sono occupazioni a misura d'uomo e le stiamo abbandonando. Prendiamo il Nautico – continua – un istituto fondato da Maria Teresa d'Austria nel 1753 come Imperial Regia Accademia di Commercio e Nautica di straordinaria tradizione (intitolato poi a un ammiraglio di casa Savoia e non chissà perché a Ressel che a Trieste ha inventato l'elica). Pochi, pochissimi studenti scelgono di fare i costruttori navali alla fine degli studi. La maggioranza prende altre strade o si iscrive all'università. Quasi tutti
considerano il lavoro di comandante o di macchinista un mondo finito. Non è colpa loro: gli insegnanti legati alla cultura marinara sono ormai mosche bianche. Così capita che perfino uno stage all'Arsenale per veder lavorare, e toccare, un motoscafo Riva del '59 (il corrispondente di chiedere a un adolescente di salire su una Ferrari) non riesca ad animare la curiosità dei ragazzi».

Lasciata la scuola, anche per delusione, Macovaz continua a inseguire un suo personale sogno. Quello di rilanciare l'Alto Adriatico incrementando l'arrivo a Trieste di turisti da tutta l'Europa dell'Est con promozioni che comprendano viaggio e soggiorno in barca. Come? Mettendo a disposizione una flotta di navi costruite con i nostri legni, nei nostri cantieri. Barche semplici, pensate per chi vuole solo divertirsi e non «batter le onde», guidate da giovani skipper triestini. «Sarebbe – spiega – una nuova, inedita forma di turismo a bassissimo inquinamento, che porterebbe in città un flusso continuo di visitatori, da marzo fino a novembre. E insieme un modo per mantenere vivi attività e lavoro legati al nostro mare».

Marina Nemeth

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