«Una medaglia in memoria del sacrificio di mio padre»

Nella rubrica “Il Dalmata intervista” del numero di febbraio 2022 de “Il Dalmata”, mensile dell’Associazione Dalmati Italiani nel Mondo – Libero Comune di Zara in Esilio, Francesca Gambaro ha intervistato il Presidente del Comitato provinciale di Novara dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia Giorgio De Cerce.

Quest’ultimo ha ricevuto in occasione del Giorno del Ricordo una medaglia dalla Presidenza della Repubblica che attesta il sacrificio di suo padre Alberto, guardia di pubblica sicurezza della Questura di Zara ucciso dai partigiani comunisti jugoslavi nel novembre 1944.

“Nativo di Ferrazzano, Campobasso, guardia di pubblica sicurezza alla Questura di Zara, Alberto De Cerce fu
arrestato ai primi di novembre del 1944 dai partigiani jugoslavi e soppresso nelle isole davanti a Zara.”
Sono state queste le parole che, durante la cerimonia di celebrazione del Giorno del Ricordo al Villaggio Dalmazia
di Novara, hanno accompagnato la consegna, da parte del Prefetto Francesco Garsia, della medaglia commemorativa,
in riconoscimento del sacrificio offerto alla patria da Alberto De Cerce, al figlio Giorgio. Giorgio De Cerce è
nato a Zara, è un assiduo frequentatore dei Raduni dei Dalmati Italiani, dal 2020 è Presidente della sede novarese
dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e dal 2021 membro del collegio dei Probiviri del Libero
Comune di Zara in Esilio.
Lo abbiamo intervistato dopo la cerimonia per conoscerlo meglio, farci raccontare qualcosa in più sulla vicenda di
suo padre e sulla sua personale storia di vita.
Mi chiamo Giorgio De Cerce e sono nato il 30 novembre del 1944 a Zara. Mio padre si chiamava Alberto De Cerce
ed era un militare della Questura di Zara. Purtroppo è stato fucilato dai partigiani jugoslavi pochi giorni prima che
io nascessi.

Ci racconta brevemente la storia di suo padre e perché ha ricevuto la medaglia dal Presidente della Repubblica?
Sulla medaglia c’è scritto “10 febbraio Giorno del Ricordo” e sul retro c’è scritto “Alberto De Cerce 1944”. Mio
padre e altri diciannove agenti di pubblica sicurezza, nonostante i militari di Zara avessero ricevuto l’ordine di rientrare
in Italia, si erano fermati in città. Lui si era fermato anche perché mia madre era incinta. Da quello che so, loro erano stati disarmati dai tedeschi, poi sono subentrati i partigiani jugoslavi di Tito i quali li hanno arrestati e messi in prigione. I tedeschi avevano lasciato Zara il 31 ottobre del 1944, il giorno successivo i partigiani entrarono in città. Il 3 novembre questi venti militari che erano della Questura sono stati imprigionati nella Villa Rolli. Poi l’8 novembre sono stati portati su un’isola di fronte a Zara di cui non ricordo il nome e lì sono stati fucilati e buttati in mare dal costone roccioso, a strapiombo sugli scogli. Uno di loro è riuscito a salvarsi perché si è gettato in acqua prima che gli sparassero, a nuoto è riuscito a raggiungere la costa e si è salvato. Si chiamava Alessandro Bertini. Mio padre e gli altri italiani insieme a lui sono stati fucilati senza nessuna giustificazione valida, perché non si trattava di un’azione di guerra, era un territorio in cui la guerra era finita, anche perché i soldati tedeschi se n’erano andati e anche quelli italiani sono rimpatriati quasi tutti da lì. Anche se c’è stato l’armistizio poi ci sono stati degli strascichi, ed evidentemente nel periodo che va dall’armistizio alla sistemazione dei nostri confini orientali c’è stato un po’ un “interregno”, in cui le bande di partigiani hanno fatto quello che volevano, non soltanto a Zara, anche in Istria e a Trieste stessa.

Di dove era originario suo padre?
Di Ferrazzano, in provincia di Campobasso, quindi era molisano. È finito a Zara perché era stato mandato, abbastanza
giovane, dal Ministero dell’Interno a Zara a far parte della Questura di Zara, e come lui altri italiani.

Il corpo di suo padre è stato mai ritrovato?
No. Io alcuni anni fa sono andato a Zara, ho preso una nave per andare alle isole Incoronate, dove mi avevano detto
che alla fine della guerra c’era stato un campo di concentramento per italiani, e ho buttato un fiore nell’acqua dove
supponevo che avessero buttato i corpi di questi militari che sono stati fucilati dai partigiani. Sono tutti senza tomba.
È stato un momento liberatorio per me perché ho finalmente commemorato il suo sacrificio.

E sua madre invece?
Mia madre era zaratina. Si chiamava Natalina Smoglian, detta Ada. Lei si scriveva con “gl”, Smoglian. Dopo che mio padre fu fucilato, mia madre decise di venire in Italia, dove c’era già una sua sorella che faceva la capocommessa a Milano alla Motta, e suo fratello Piero che abitava a Varese.
Suo fratello è stato in un campo di concentramento tedesco, lui era un aviatore. Quindi sapendo che loro erano in Italia voleva avvicinarsi, ed è arrivata a Novara, contando sul fatto che i suoi fratelli la aiutassero. A Novara mia madre è entrata nel campo profughi, io avevo quattro anni, quindi era il 1948. Mia madre faceva la sarta e ha conosciuto l’agente di pubblica sicurezza che le pagava la pensione di guerra (essendo stato mio padre un poliziotto, lei ne aveva diritto). Questo signore si è innamorato di mia madre la quale, pensando che sarebbe stato un bene per me avere un padre, un patrigno, si è risposata. E lui ci ha tirati fuori dal campo profughi della Caserma Perrone, dopo un anno o poco più, e abbiamo iniziato a vivere a Novara in centro città.

Che ricordi ha di quel periodo?
Una cosa che mi ricordo molto bene è che quando eravamo al campo profughi c’erano delle camerate molto lunghe. In ogni camerata ci saranno state venti famiglie, e ogni famiglia aveva due coperte militari, un letto, un armadio e
basta. Ricordo benissimo l’immagine di questa camerata con la parte riservata alla mia famiglia, avrò avuto quattro
anni, quindi è un ricordo che mi è rimasto molto dentro, molto impresso.

Lei si è sentito esule nella sua vita?
Mia madre era esule e parlava in veneto. Io da piccolo non ho imparato a parlare veneto perché il mio patrigno
aveva proibito a me e a mia madre di parlare il dialetto veneto. Io ancora non lo sapevo quindi non l’ho imparato e
questa è una cosa di cui mi dispiace. Lui era di Benna, in provincia di Biella, e ha sempre parlato solo in italiano.
Mia madre parlava in veneto con le sue amiche e conoscenti del Villaggio Dalmazia, invece a casa doveva parlare
l’italiano, quella era la regola.

Come mai a un certo punto lei ha sentito l’esigenza di ricongiungersi al mondo degli esuli?
Io mi sono sempre sentito veramente zaratino. Un paio di anni fa avevo chiesto in Prefettura il riconoscimento della qualifica di profugo. Mi hanno risposto che in archivio non avevano niente e non me la potevano dare. Mi sono rivolto a dei giornalisti e ci sono stati alcuni articoli sui giornali e, dopo circa un anno, mi è arrivata finalmente la qualifica di profugo. Sono nato a Zara, poi sono venuto in Italia, quindi esule o profugo, chiamiamolo come vogliamo, lo sono stato evidentemente. Per questo mi sento fortemente zaratino. Siamo tornati diverse volte a Zara, con mia madre a trovare uno zio che era rimasto lì con la mia nonna (e che, purtroppo, è morto alcuni giorni fa di Covid), e poi raggiunta la maggiore età anche da solo. È una città bellissima, affacciata sul mare: una città che ne ha vissute tante, è stata chiamata la Dresda dell’Adriatico per quanto è stata bombardata. Mia mamma è scappata fuori Zara per difendersi dai bombardamenti. Noi abitavamo in Calle Paradiso, vicino a Piazza dei Signori e a Calle Larga, quindi nel centro città. E poi siamo scappati da dei cugini che avevamo fuori città, e per fortuna i bombardamenti non li abbiamo subiti. Poi, quando è finita la guerra, mia madre con me è tornata a Zara, abbiamo preso il treno e siamo venuti in Italia. Tra l’altro quando è arrivata a Trieste, mentre scendeva dal treno con me in braccio e con una valigia, ha chiesto a una persona sotto: “Senta mi tiene la valigia che scendo con mio figlio?”. Gli ha passato la valigia e quando è scesa con me in braccio non ha trovato né quello né la valigia. Quindi si è trovata senza niente! Poi è andata al comando di polizia, le hanno fatto un foglio di via ed è riuscita ad arrivare fino a Novara dove è entrata nel campo profughi. Così non ha portato con sé niente da Zara, solo quello che aveva in tasca.

Cosa rappresenta per lei la medaglia che ha ricevuto?
È chiaro che sono stato estremamente contento. La segretaria del Prefetto di Novara mi ha detto che erano andati a Roma a prendere una medaglia che mi sarebbe stata consegnata per la memoria di mio padre in occasione del Giorno del Ricordo. E allora sono rimasto sorpreso e felice, ovviamente! Penso di dover ringraziare anche il commissario capo Marco Somenzi e il questore Rosanna Lavezzaro che due anni fa avevano voluto che raccontassi loro la mia storia.
Sulla pergamena che mi è stata consegnata unitamente alla medaglia, è scritta la seguente motivazione: “In riconoscimento per il sacrificio offerto alla patria da Alberto De Cerce”, firmata da Draghi e Mattarella. E sotto ci sono i nomi delle città di Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara. Il ricordo di mio padre mi ha sempre seguito per tutta la mia vita. E Zara è il posto dove sono nato e io mi sento zaratino a tutti gli effetti. È vero che sono venuto ad abitare qui e posso essere considerato anche novarese, però il mio retaggio è là. Zara per me è il posto dove sono nato. Poi ho conosciuto anche tanti zaratini in occasione dei Raduni del Libero Comune di Zara in Esilio. È la mia comunità.

Intervista di Francesca Gambaro a Giorgio De Cerce
Fonte: Il Dalmata – 02/2022

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