di Piero Tarticchio
C’era di che rallegrarsi nel vedere tanta bella gente al 45° Raduno dei Gallesanesi avvenuto lo scorso giugno a Peschiera del Garda. Il Presidente della «Fameia Gallesanesa» Beniamino Moscarda e il Segretario Aldo Debrevi erano al settimo cielo. Da diversi anni non si registrava un pienone com'è avvenuto nel 2008. È vero che il tempo anagrafico non ci aiuta, com'è vero che anno dopo anno la pagina dei necrologi sul nostro giornale occupa sempre più spazio, ma è altrettanto vero che l'appello lanciato dalla «Fameia» alle nuove generazioni per una maggiore partecipazione incomincia a dare i suoi frutti.
L'orgoglio delle proprie radici è un sentimento misconosciuto che si deve rafforzare per mantenere unita una comunità, al di sopra dei nazionalismi e dei confini.
Un momento di riflessione
Non mi soffermerò sulla cronaca del raduno che non si discosta molto dagli anni scorsi, se non per il tempo (questa volta inteso in senso meteorologico) il quale ci ha favoriti regalandoci una magnifica giornata di sole estivo. La proposta da me sollevata lo scorso anno e pubblicata nell'editoriale di fine anno 2007, di fare il 45° Raduno Nazionale a Gallesano in cui gallesanesi esuli e quelli rimasti potessero finalmente ricongiungersi in un incontro di riconciliazione extra nazionale, purtroppo è miseramente fallita. I motivi sono tanti e tutti oltremodo validi. Ho dovuto constatare che se posso influenzare gli uomini non posso plagiare le loro coscienze.
La lezione mi servirà in futuro. Anche se non in forma plebiscitaria la risposta – uscita dal convivio – è stata chiara e inappellabile: il Raduno dei Gallesanesi, organizzato in forma statutaria dalla «Fameia Gallesanesa» è un'emanazione degli esuli con il preciso scopo di ritrovarsi dopo l'iniqua dispersione che li ha divisi nell'immediato dopoguerra. Per quanti lo desiderano si potranno organizzare raduni minori a Gallesano che non sminuiranno in alcun modo l'alto valore simbolico del convegno Nazionale. Rimangono pertanto immutate le finalità fondamentali della nostra manifestazione che non significa chiusura preconcetta a chiunque voglia partecipare, ma allargamento anche per quanti risiedono al di là dei confini.
L’Italia deve credere nel cambiamento
In primavera abbiamo assistito al cambiamento di rotta alla guida del Paese tuttavia non sono cambiati i modi di fare politica in Italia. Dobbiamo constatare quanto sia difficile promuovere riforme per porre termine agli sprechi del malgoverno. La sola pace sociale che la vecchia nomenclatura ammette è lo «status quo» precursore storico degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, meglio noto come il padre dell'immobilismo.
È un dato di fatto che siamo in fase di recessione economica, la produzione segna il passo, diminuiscono i consumi, aumentano i prezzi e la fila dei poveri ha superato la doppia cifra. La finanza è nel caos, i mercati di tutto il mondo hanno collassato favorendo gli speculatori. Il catastrofismo mediático impera terrorizzando la gente che ha investito i propri risparmi. L'Italia avverte la necessità di cambiamenti radicali ma li vorrebbe senza rinunciare ai quei privilegi promessi dai passati governi che per accattivarsi il consenso dell’opinione pubblica hanno concesso benefici a pioggia, trascurando di fatto noi esuli. Ogni nostra rivendicazione deve essere portata avanti con la ferma determinazione che la spada della giustizia sta dalla nostra parte e deve essere ribadita con determinazione nei confronti di qualsiasi fazione politica vada al potere.
Le ragioni dei nostri mali
È ormai assodato che la voce deputata a portare avanti le nostre istanze sta diventando ogni giorno più «debole» (noi non abbiamo mai chiesto ufficialmente a Slovenia e Croazia chiarimenti sulle foibe; non abbiamo mai portato le nostre ragioni in piazza, non abbiamo mai lanciato sassi, dirottato aerei o ci siamo fatti esplodere in un autobus; tutti atti di forza che avrebbero richiamato l'attenzione dell'opinione pubblica e dei media). Come aggravante le nostre associazioni (l'Anvgd, l'Unione degli istriani e la Federazione) sono sistematicamente divise da progetti politici divergenti. Spesso i loro litigi sono diffusi dai media con grande giubilo da parti di quanti ci hanno da sempre avversato. Coloro che osano dissociarsi vengono messi al bando accusati di «dissidenza», altrettanto avviene con chiunque non si allinei con i vertici.
Queste divisioni non hanno portato alcun beneficio agli esuli, al contrario hanno favorito solo il gioco dei nostri nemici storici, quelli che ieri hanno negato la nostra identità e oggi vorrebbero ricacciarci nell'oblio.
I tentennamenti non servono più ci vogliono i fatti. Se come popolo e come entità storica non vogliamo scomparire definitivamente (l'anagrafe dei sopravvissuti all'esodo gioca a nostro svantaggio) e con noi seppellire nell'indifferenza anche il «Giorno del Ricordo», fortemente voluto dopo 57 anni di silenzio di stato, dobbiamo alzare la testa a affrontare – non come pecore sparse -chi ancora è disposto ad ascoltarci.
II nostro peso politico è pressoché zero, il potere ci snobba e fra poco non sentirà più nemmeno il dovere di ascoltare le nostre rivendicazioni. Con umiltà dobbiamo accantonare il nostro orgoglio e presentarci uniti al tavolo delle trattative. Non ci rimane più tanto tempo a disposizione per far valere i nostri diritti ; in caso contrario il nostro associazionismo potrà considerarsi definitivamente morto. Che diremo alle nostre generazioni future quando ci chiederanno le ragioni di tanta discordia ? La storia si costruisce con i fatti e viene giudicata dai risultati conseguiti; dal coraggio e dalla capacità di risolvere le situazioni più spinose. Nel passato non abbiamo accumulato altro che sconfitte, sonore batoste, a cominciare dal giorno in cui abbandonammo la nostra terra. In poche parole per sopravivere dovremmo ispirarci non tanto dagli estremisti Arabi, ma almeno agli Ebrei, più vicini alla nostra realtà.