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Susanna Agnelli e la ex Jugoslavia (La Stampa 19 mag)

di ALDO RIZZO
 
L’addio a Susanna Agnelli è stato accompagnato da un coro unanime di ricordi e rimpianti, e di riconoscimenti politici e istituzionali. Ovviamente, non è stato trascurato il fatto che fu la prima, e per ora unica, donna a guidare in Italia il ministero degli Esteri: nel governo di Lamberto Dini, succeduto nel gennaio 1995 al primo e breve ministero di Berlusconi. Va detto, tuttavia, che non si trattò di uno dei molti episodi, dei molti «primati», di una vita straordinariamente ricca e complessa. Alla Farnesina, dove rimase fino all’aprile 1996, Susanna Agnelli svolse un lavoro politico e diplomatico molto specifico, che merita di essere ricordato più in dettaglio.

Il suo primo atto di rilievo fu la decisione di togliere il veto italiano al negoziato di adesione della Slovenia all’Unione europea. Cioè di rimuovere un approccio nazionalistico (pur giustificato dai comportamenti di Lubiana, nella questione dei diritti dei profughi istriani) ai rapporti con i vicini dell’Est. All’epoca, incombeva il tragico caos della ex Jugoslavia, dal quale la Slovenia si era, con un po’ di fortuna, appena salvata. In quel contesto, le parve giusto lanciare un segnale di buona volontà, ma anche di «responsabilizzazione dell’interlocutore», al di là di Trieste e dell’Adriatico.

Una strategia alla quale restò fedele anche verso la crisi del resto della ex Jugoslavia. Non che non ne vedesse le responsabilità primarie, ma era «inorridita», mi disse in un’intervista a La Stampa, dallo spettacolo diffuso delle atrocità etniche, non tutte imputabili ai serbi. E dunque la necessità, o almeno la speranza, di una soluzione «politica», perché «imporre la pace a gente che vuole la guerra significa intervenire e distruggerli, un altro massacro». La soluzione politica fu infine raggiunta a Dayton nel novembre 1995, ma dopo lunghe e luttuose prove di forza. E nel frattempo non era mancato, nei suoi confronti, un sospetto di «filoserbismo». Non raccolto, però, dall’alleato americano, che anzi volle l’Italia nel «Gruppo di contatto» delle maggiori potenze sulla crisi balcanica: un riconoscimento di cui andò giustamente fiera.

Ma più importante fu la politica del ministro Agnelli verso il processo d’integrazione europea. Lì si trattò di ribaltare la sconcertante immagine euroscettica che il primo governo Berlusconi aveva dato di sé, pensando in tal modo di rafforzare il prestigio nazionale dell’Italia. Al vertice europeo di Corfù, nell’estate del 1994, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri Antonio Martino avevano considerato un successo prendere le distanze da Francia e Germania e ribadire le critiche a Maastricht e al progetto della moneta comune. Nel palese imbarazzo dell’allora ministro del Tesoro, Dini. Caduto quel governo, e diventato proprio Dini il nuovo Premier, Susanna Agnelli riportò la politica europea dell’Italia sui binari della tradizione, tra il sollievo dei nostri partner storici. Non che ci fossero atti di pentimento nazionale, questi erano estranei alla personalità di Susanna e alla sua fortissima percezione dell’orgoglio italiano. Solo cambiò nei fatti la linea di Roma sulle questioni di fondo dell’integrazione europea, o meglio tornò quella di prima, spianando la strada agli anni di Prodi e Ciampi e cioè al nostro ingresso nel gruppo di testa dell’Euro.

Insomma non fu routine politica il passaggio di Susanna Agnelli alla Farnesina. Fu uno snodo della politica estera italiana negli ultimi quindici anni. Una lezione, anche. Sono seguiti altri due governi Berlusconi e lo stesso Dini è tornato da quelle parti, ma senza rivedere, fortunatamente, le sue idee sull’Europa.
 

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