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Quell’ateneo di Trieste già così italiano (ildomenicale.it 08 set)

Cinquantacinque anni fa, a un anno dalla sua “redenzione”, Trieste ospitò la migliore pittura italiana contemporanea per iniziativa della sua Università. Che oggi celebra quella storica mostra e se stessa, con un occhio anche all’antico
 
 
di Matteo Tosi
 
Era l’8 maggio 1945 quando la Germania nazista offrì la propria resa incondizionata agli eserciti alleati, facendo calare il definitivo sipario sui fatti europei della Seconda guerra mondiale (protrattasi, invece, nel Pacifico, fino al 15 agosto dello stesso anno, data della resa del Giappone, dilaniato dalle due atomiche a stelle e strisce). Correva l’anno 1945, dunque, quando si smise di sparare nel Vecchio Continente, ma per arrivare a una sua reale “pacificazione” e alla ridefinizione dei suoi confini interni servì quasi un’altra decade. Anni di tensioni e speranze, rivendicazioni nazionaliste e lotte intestine,  commissariamenti e tentativi di risoluzioni internazionali che si susseguirono contraddicendosi di volta in volta attraverso tutta Europa, e con un punto particolarmente dolente rappresentato dai Balcani e dall’Alto Adriatico. Trieste e il suo “Libero Territorio” furono uno dei fulcri più caldi del confronto, teatro delle opposte ambizioni italiane e jugoslave, forse troppo goffamente amministrate dal Governo Militare Alleato che assunse la reggenza di quelle terre.

Una seconda redenzione
L’intera area, infatti, fu subito giudicata dagli anglo-americani come un possibile baluardo dell’Occidente di fronte alle rivendicazioni comuniste che arrivavano da oriente e dalla sinistra giuliana, con un conseguente intendimento di riportare la città e i suoi dintorni verso il controllo del neo-democratico governo di Roma. Ma l’arrogante prepotenza di Tito da una parte e la pavida incertezza capitolina dall’altra, contribuirono a far rimischiare le carte più e più volte. Fino al 1953, appunto, l’anno della svolta, l’ultima, della “questione di Trieste”. Spostamenti di truppe lungo i reciproci confini e annunciate mire dell’una e dell’altra parte sia sulla cosiddetta “zona A” che sull’Istria e il suo entroterra (la “zona B”), portarono a un accelerarsi degli eventi, tra tumulti e manifestazioni di piazza, scontri diplomatici e minacciate annessioni unilaterali.
L’8 ottobre di quello stesso anno, sembra essere la data giusta per sciogliere ogni nodo, perché Washington e Londra annunciano l’imminente passaggio di Trieste e della “zona A” all’Italia e quello della “zona B” al governo di Belgrado. Tito, però, mostra i muscoli e tutto si impantana ancora. Anzi, le speranze “italiane” della città sembrano affievolirsi giorno dopo giorno, ed è lo stesso Rettore dell’ateneo giuliano, Angelo Ermanno Cammarata, a lasciar trapelare dubbi su possibili “intenti coloniali” della Corona britannica.

Una mostra tutta italiana
Anche per questo è proprio l’Università di Trieste a sublimare le spinte “irredentiste” dei suoi concittadini in una grande mostra di pittura contemporanea (e annesso corso di critica artistica), dove raccolse tutto il meglio dell’italica arte del Primo dopoguerra e di allora, non solo portando in città le opere dei più grandi, ma dando il la a una vera e propria collezione d’ateneo (e affermando così la propria unicità e la propria vocazione all’eccellenza in ogni campo), con l’acquisizione definitiva di tutte le opere esposte. Un messaggio più che evidente per tutti, al di qua e al di là di ogni confine, che trovò subitanea risposta in tutto lo Stivale, anche perché in quell’anno non erano in programma né la Biennale di Venezia né la Quadriennale di Roma. Non risposero solo i pittori del Nord Est (Giuseppe Santomaso, Edgardo Sambo, Carlo Sbisà e Afro Basaldella su tutti), ma anche il genovese Emilio Paolucci, il piemontese Felice Casorati, il siciliano Francesco Trombadori, i romani Antonio Donghi Giovanni Omiccioli, e Ottone Rosai, Carlo Levi, Filippo De Pisis, Aligi Sassu, Emilio Vedova, Giuseppe Capogrossi e altri ancora, raccontando la pittura italiana in tutte le sue sfumature, classiciste, neoprimitiviste, surrealiste e astratte.
Le stesse che vediamo oggi, arricchite dall’omologa collezione del Museo Revoltella e dalle successive acquisizioni dello stesso ateneo, che continua così, in tutta la sua italianità, a mostrare la propria rigorosa efficienza mitteleuropea. Quella di un’università votata soprattutto alle scienze fisiche e sociali, ma ricca di un proprio sistema museale di eccellente qualità e dinamismo.

Novecento e Medioevo
Non solo, infatti, è ancora l’Università di Trieste a farsi prima promotrice di questa “mostra-anniversario”, ma è ancora lo stesso ateneo a organizzare un’affascinante esposizione, quasi in contemporanea, dedicata agli albori della civiltà giuliana e alla leggendaria storia della città alabardata. Un grande evento “culturale” in tutti i suoi sensi, che è anche l’occasione per presentare a Trieste e al Mondo i lavori di restauro che hanno finalmente recuperato lo splendido castello di San Giusto, simbolo e vedetta della città.
In mostra, il meglio della produzione artistica che l’area espresse tra XIV e XVI secolo, per raccontarne anche le istituzioni e la società, a partire da quella «compagine di famiglie – come dichiarato da Paolo Cammarosano, presidente del Comitato scientifico che ha coordinato l’iniziativa – che organizzarono produzione di leggi e amministrazione della giustizia, difesa militare, gestione urbanistica e controllo del territorio, coordinamento tra economia pubblica ed economia privata».
Allegorie e immagini urbanistiche, mappe e planimetrie, tele d’autore, oreficerie, armi, pale d’altare, monete e suppellettili di ogni genere che si affiancano a una straordinaria raccolta di documenti scritti, codici solenni e atti di natura privata, registri delle pubbliche amministrazioni e lettere diplomatiche per raccontare la storia “alta” e le vicende quotidiane (che qui si incrociarono per secoli) non solo della Città di Trieste, ma anche del Patriarcato di Aquileia, della contea di Gorizia, della Repubblica di Venezia, e di quel Granducato d’Austria che alla fine s’impose. Per molto tempo, ma non per sempre.
 

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