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Portole, la triste rovina di un paese (Voce del Popolo 10nov12)

Anche per poter arrivare a Portole bisogna salire su e su dal vallone del Quieto per una strada tutta tornanti, che alla fine si spalanca sulle vallate che circondano l’antico abitato. Da lontano il paese sembra uno dei tanti che occupano i colli dell’alta Istria, ma quando ci siamo avvicinati, quando siamo entrati e abbiamo percorso le sue stradette lastricate, siamo quasi stati presi dall’angoscia. Eppure il piazzale che fa da belvedere sulle rigogliose colline verso occidente sembrava dare un senso di vitalità all’abitato. Qui infatti, nei pressi della loggia rinascimentale veneta dipinta di rosso, c’era un certo via vai, un movimento anche di qualche automobile, una trattoria pure se aperta solo al pomeriggio, qualche officina artigianale e, a dire la verità, anche qualche impalcatura addossata a dei muri scrostati per il restauro di un qualche edificio piuttosto fatiscente.

 

Tuttavia davvero bisogna passare l’arco a volta della porta maggiore, sotto l’ex fondaco, per accorgersi che, entro le sue mura, Portole oggi è tutta una rovina: facciate sbrecciate, vani con le finestre spalancate che guardano il cielo, tetti sfondati delle case che s’allineano lungo gli stretti vicoli lastricati dove non passa quasi mai nessuno. Nel centro c’è la chiesa parrocchiale di San Giorgio (che tra l’altro dovrebbe conservare un dipinto del Carpaccio che non abbiamo potuto vedere perché chiusa, il paese non ha più un parroco fisso) con accanto il campanile (una volta alta e nobile torre maestra della cinta muraria) anche questo piuttosto rosicchiato dal tempo e dalle intemperie e con appoggiato ai piedi un grande Leone di San Marco che una volta, prima che desse fastidio a qualche nuova autorità, era murato sulla facciata del Palazzo municipale, tutto questo risultato di un’attività edilizia svoltasi nell’ambito di più secoli, sebbene l’impronta principale sia stata data dal radicale restauro del tardo gotico (prima della metà del secolo XV).

L’edificio che sovrasta l’arco a volta del fondaco dal quale siamo entrati, ossia oggi l’ingresso principale alla città murata, minacciava addirittura di crollare se non fosse stato negli ultimi tempi completamente restaurato. Anche poche altre case sono state rimesse a nuovo da quanti, negli ultimi decenni, si sono spostati nel centro dai vari villaggetti che sorgono sui colli circostanti e molte altre sono state acquistate per farne una residenza estiva anche da persone arrivate dall’estero.

 

Nota Luigi Foscan nel suo “Porte e castella dell’Istria”: “Portole racchiude nella memoria storica delle sue origini un mistero, poiché l’antico Portus appare quando e dove non dovrebbe esserci e non si trova anche se vi è certezza della sua presenza”. E più avanti cita: “Alla ‘Porta’ montana altomedioevale, che prese il posto di un ancor più antico insediamento istroromano collocato sull’altro versante destro della profonda valle del Quieto, si collegano i primi patriarchi di Aquileia, i primi marchesi d’Istria e la ricca potenza dell’abbazia di San Gallo di Moggio in Friuli. In sintesi possiamo affermare che il castello abbia fatto parte, fin dall’undicesimo secolo del Patriarcato friulano. Appartenenza sanzionata nel 1208 con il diploma di investitura del Marchesato d’Istria al patriarca Wolghero. A Portole allora giunse il gastaldo patriarchino, che prese stanza a nome dei principi aquileiesi fino al 1251, anno in cui il patriarca Gregorio da Montelongo, impelagato, oltre che in Friuli dai vassalli riottosi anche dai suoi sudditi ribelli istriani; i quali non ritenevano di riconoscerlo loro signore, per cui dovette decidersi di cedere alcune città e castelli tra i quali appunto Portole, che mantenne questa sua prerogativa ben oltre il 1420, anno del passaggio delle terre patriarchine alla Serenissima”.

 

A proposito del Portus, Giuseppe Caprin nelle sue “Alpi Giulie” edizione 1895 cita: “Portole ha alle spalle il Monte Maggiore, in faccia un lembo dell’Adriatico; se ne sta tra l’alpe e il mare, altissima guardia di due passi, per cui s’ebbe il nome di Porta o Portus”.

Più avanti annota ancora: “Portole fu l’ultima a far parte dell’Istria veneziana, cioè quando distrutto il potere temporale dei patriarchi di Aquileia, il generale Arcelli l’occupò con i suoi cappelletti ed emanò lo statuto, tradotto allora dal latino in volgare italiano (…) con cui si invoca il diritto e la giustizia (…) perché non punendo il male si scaccierebbe la pace dal mondo e per ottenerla conviene rendere la natura soggetta alla giustizia”. Tra l’altro lo statuto seguiva anche la legge del taglione. Infatti ordinava: “… qualunque cittadino, abitante o forestiero, tagliasse ad altro cittadino qualche membro, sia condannato a perder simil membro suo senza remissione”.

 

Ritorniamo alle note di Luigi Foscan per chiarire l’aspetto della Portole di oggi: “La città di forma poligona intorriata, aveva tre porte di cui la maestra provveduta di ponte levatoio. (…) Ha raggiunto i nostri giorni la sola porta Maggiore (…) ancora riconoscibile nonostante l’oltraggio delle numerose mutilazioni subite. Sono scomparse le merlature, sostituite dal tetto a falde e nell’alta facciata in pietra arenaria, sono spuntate numerose finestre che segnano i tre piani superiori”. Più avanti aggiunge: “La cinta muraria del castello si è trasformata nel corso dei secoli da chiuso baluardo a semplici mura domestiche trasformate da numerose porte e finestre, cosicché l’antico aspetto è quasi del tutto scomparso sostituito da una continua successione di edifici con scale e ballatoi interrotti a tratti dalla presenza di un unico torrione, di qualche metro di alta muraglia e dall’alta e nobile torre maestra convertita in campanile della prospiciente chiesa barocca, ma dall’interno gotico, di San Giorgio”, come da noi in precedenza citato.

 

È stato quasi per caso che abbiamo incontrato una specie di cicerone il quale ci ha spiegato parecchie cose. Era un non troppo giovane omaccione che stava facendo merenda – pan, formajo e sardelle salade, se volè favorir… – seduto sul muretto della loggia. Alle nostre insistenti domande ci ha raccontato qualche particolare della storia recente, quella che ha praticamente segnato la vita di Portole negli ultimi tempi. “Nel dopoguerra quando l’esodo – ci disse tra un boccone e l’altro – ga portado via, oltre confin, quasi tuti, qua i xe restai in pochi. Mio nonno, un Bassanese xe mio nono, no’l ga molà le sue vigne. E gnanche la sua casa che stemo riparando. Sua? De mia nona che la jera una Gottardis e go dito tuto! E adeso ne toca a noi che no semo più giovani tirar su ‘sti veci muri che i va zo, uno drio de l’altro…”. Ci disse ancora l’uomo che oggi le vecchie famiglie portolane sono molto poche e tutte si dedicano alla viticoltura. Un tempo però, quando c’era ancora la ferrovia a scartamento ridotto Parenzo-Trieste (1902-1935) e un bel tratto del fiume Quieto era navigabile, anche a Portole c’era un via vai di merci e di genti, di commercianti e sensali, di grossisti e dettaglianti intorno ad un’attività artigianale di bottai, maniscalchi, scalpellini, calzolai, pentolai, muratori, intagliatori. Anche materassai, tessitori e tintori. In paese vivevano più di ottocento persone, mille con quelle dei casali dei dintorni.

 

Ad un tratto chiedemmo:
– E sua nonna Gottardis le ha mai raccontato qualche leggenda del posto?
– Oh Dio! Storie vece volè dir? Mah… no savaria…
Si mise a ridere e poi da una borsa di pelle unta e bisunta tirò fuori una bottiglia di vino, la stappò, ce la offerse:
– Se ve degnè… Ma no go bicer…
Accettammo ugualmente un sorso e poi, tra una battuta e l’altra (noi aspettavamo che l’osteria aprisse i battenti per farci un po’ di pane e prosciutto) venne fuori anche la leggenda. Ma non della nonna Gottardis, ma dell’altra che era una De Candido e… “la gaveva un fogoler largo come ‘na piaza e noi tuti torno, no jera television a quei tempi!”.

 

Più che una leggenda si trattava di un’usanza, dato che una volta dalle parti di Portole pare che imperversasse il malocchio. Per difendersi c’erano vari modi. Per esempio la sposa il giorno delle nozze non doveva assolutamente avere alcun nodo – nessun gropo – nelle vesti, neanche nelle scarpe! Un giorno che una contadinella doveva sposarsi, così la sera prima venne istruita dalla nonna perché potesse, da sposata, difendersi dalle varie strigonerie: – Ricordati, niente nodi alle nozze e quando rimarrai incinta, mai passare sotto una corda tesa, mai mangiare carne di maiale per non far venire bitorzoli al picinin e mai portare collane. Ricordati ancora che per facilitare il parto dovranno appoggiare sul letto un paio di pantaloni di tuo marito. Quando nascerà un maschietto, devono avvolgerlo nella camicia del padre e nelle fasce dovranno mettergli un bell’uovo sodo se si vorrà che diventi un vero maschio. Nelle fasce di una bambina andrà invece bene una luganega. E per non perdere il latte dovrai portare nella tasca del grembiule un pettine con i denti sempre rivolti all’insù mentre la biancheria dei picinin, lavata e messa ad asciugare, dovrà essere levata prima del tramonto del sole, cioè prima che arrivino le streghe a stracciarla. Rise il nostro cicerone e poi, facendo spallucce, così commentò: – ‘Na volta jera cussì dale nostre parti. Oggi? Beh, oggi… lassemo perder… Riprese la bottiglia in mano e quindi porgendocela disse:
– Se i siori vol favorir un ultimo jozzo!

 

Mario Schiavato

“la Voce del Popolo” 10 novembre 2012

 

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