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Per 11 anni non ho parlato croato (Apcom 13 feb)

Padriciano (Trieste), 13 feb. (Apcom) – Per undici anni si è imposto di non parlare più croato. A nessuno, neanche alla sorella. È così che è iniziata per Emilio Fatovic, oggi rettore del Convitto nazionale Vittorio Emanuele II di Roma, l'esperienza dell'Italia. Aveva nove anni quando, nel 1957, la mamma italiana e il padre croato hanno deciso di trasferirsi in Italia. "Invece è iniziata l'odissea dei campi profughi", spiega Fatovic mostrando la palazzina gialla che, a Padriciano (Trieste), ha ospitato i profughi provenienti dall'Est fino al 1976, quando fu resa inagibile dal terremoto del Friuli. "Furono 400mila le persone che decisero di lasciare la Jugoslavia e vennero in Italia da profughi fino alla metà degli anni Settanta".

"Avevamo ottenuto il timbro per l'espatrio – spiega Fatovic – grazie a uno zio che faceva l'assessore del Comune di Zara. Venimmo in Italia ufficialmente per ferie da alcuni parenti a Gorizia, e una volta qui chiedemmo l'asilo politico. Pensavamo di ottenere subito la cittadinanza invece finimmo qui". La palazzina, che oggi ospita il museo del campo profughi, è fatta di qualche piccola stanza, dove abitavano interi nuclei familiari e di una grande sala, delle dimensioni di una palestra dove dormivano centinaia di persone, qualche coperta appesa a fare da parete. "Dal 1957 al 1960 abbiamo girato i campi profughi di Capua, Cremona, Garniano, Udine, Padriciano e Opicina, che finalmente non era più un campo. Là avevano costruito delle abitazioni vere e proprie per i profughi".

L'impatto fu difficile, uno dei primi giorni di scuola Fatovic si sentì dire da un compagno: "Bastardo slavo torna a casa". "Così – racconta – mi imposi di non parlare più croato a nessuno. Per undici anni non risposi in quella lingua neanche più a mia sorella. Devo dire però anche – aggiunge – che sono grato allo Stato italiano. Ebbi per oltre dieci anni una borsa di studio che mi permise di frequentare il Convitto Paolo Diacono di Cividale del Friuli fino alla maturità. Mi si chiedeva solo di avere la media del sette". Di quello stesso istituto, Fatovic divenne vicerettore anni dopo. "Bisogna dire – racconta – che erano tante le associazioni e le parrocchie che aiutavano. Quasi tutti i bambini venivano spediti dai genitori in collegio. In questo modo avevamo un tetto sicuro, mentre i genitori potevano lavorare".

Ma è stata dura. "Molti – spiega Fioretta Filippaz Cherti, anche lei esule istriana – sono finiti a Pesaro e le famiglie facevano fatica ad andarli a trovare. E anche là si era sempre etichettati come profughi istriani".

 

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