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Pansa: pellegrinaggio nell’inferno dei vinti (La Stampa 01 ott)

di MARIO BAUDINO

C'è un atto d'accusa che non riguarda le vicende fra il '43 e il '45 nel libro di Giampaolo Pansa in uscita il 6 ottobre per Rizzoli. I vinti non dimenticano, 467 pagine di viaggio testardo in quell'inferno spalancato con Il sangue dei vinti nel 2003 e poi percorso instancabilmente fra saggi e romanzi, chiude forse una pagina e ne riapre un'altra, sul presente. «Oggi la sconfitta politica della sinistra, battuta dal centrodestra, ha inacidito – scrive Pansa – l'antifascismo rosso. I suoi cattivi umori l'hanno spinto a chiudersi in se stesso, come in un bunker assediato da alieni sbarcati sulla terra da un'astronave. Lo constato da molti segnali. E non soltanto dal rifiuto testardo dei miei libri revisionisti». E ancora: «Le tante sinistre sono convinte di essere le uniche a possedere la verità sulla guerra civile e su molte altre cose. Questo vizio le rende arroganti, supponenti, boriose. Fingono di non trovarsi al lumicino. E si scagliano a testa bassa contro chiunque non accetti le loro parole d'ordine».

I vinti non dimenticano parla di guerra civile, di resistenza, di fascismo, antifascismo, crimini e orrori, ma questa volta più che in passato guarda ad altro, suggerendo la tesi che non solo c'è ancora una memoria solo in apparenza lontana a pesare su di noi, ma quelle ferite sono state riaperte in modo traumatico proprio dal clima politico degli ultimi sedici anni. È una posizione d'attacco, che farà discutere, e molto. Pansa, contestato – qualche volta non solo a parole -, rilancia la sfida. Continua a raccogliere testimonianze, ma qui soprattutto lo fa da una biblioteca. Il libro è costruito in forma di dialogo con la figura della bibliotecaria Livia Bianchi, già presente nel Sangue dei vinti. Non è proprio un dialogo socratico, visto che i due sono sostanzialmente d'accordo su tutto. Ma è un dialogo vivace, al limite dell'ammicco privato, quasi a stemperare il peso dei documenti che or l'uno or l'altro estraggono da uno scaffale immaginario.

E' un peso di sangue. Pansa ripercorre i temi delle violenze spaventose di una guerra civile insistendo su quelle subite dai «vinti» perché rappresentano la parte in ombra del quadro generale, dove hanno posto solo le sofferenze dei «vincitori»; ma insieme ad esse dedica lunghi capitoli alla popolazione civile, quella che secondo l'espressione di Renzo De Felice fu la «zona grigia», largamente maggioritaria. Affronta il tema dei bombardamenti sulle città italiane che spiega, cifre alla mano, fecero un numero di vittime ben superiori alla guerra tra antifascisti e fascisti, «una storia di stragi che non viene mai ricordata da chi è abituato a un racconto fazioso della guerra» e cioè dagli «storici di regime», dai «professionisti dell'antifascismo». E' amaro, sarcastico, provocatorio, «cattivo».

Affronta il tema delle foibe ma in generale delle violenze e della «pulizia etnica» nel Nord-Est e in Istria ad opera dell'esercito partigiano jugoslavo, e dei massacri consumati a Torino, in Toscana e in Liguria; estrae dagli scaffali reali o immaginari della sua biblioteca dell'orrore decine e decine di opuscoli dimenticati, affiancandoli a ricostruzioni storiche uscite ad esempio per il Mulino. Giunge a una conclusione che date le premesse sembrerebbe inevitabile: nell'autunno-inverno del ‘43 «emerge il connotato primario della lotta partigiana, il suo Dna: il terrorismo». Di qui il parallelo con le Brigate rosse degli Anni Settanta e Ottanta: «I killer delle Br si consideravano gli eredi dei terroristi comunisti della guerra civile. E con ragione, penso io».

Nel quadro di Pansa il ruolo dei Comitati di Liberazione Nazionale e della altre formazioni partigiane è sminuito, persino nel Piemonte occidentale dove pure ebbero un ruolo molto importante e combatterono una grande battaglia di libertà senza indulgere nel complesso alla violenza gratuita. Il peso dell'organizzazione del Pci, delle sue bande partigiane e della sua struttura politica, è ritenuto infatti enorme e spropositato, la strategia dei Gap viene letto come il ruolo-guida. E l'articolo di Giorgio Amendola sull'Unità di Torino del 29 aprile 1945 suona come il vero programma politico e strategico del partito. «Pietà l'è morta – scriveva il dirigente comunista -. È la parola d'ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata. Con risolutezza giacobina, il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato».

I vinti non dimenticano è la traccia di sangue di questo coltello giacobino, che certo era stato molato e affilato ben prima nella pur breve storia dello Stato italiano e non solo in quella del fascismo. Ma c'è forse qualcosa di giacobino anche nell'indignazione di Pansa, nei colpi durissimi e unilaterali inflitti a quella che considera la «vulgata». Ad apertura di libro si chiede se, date le circostanze, «dobbiamo ancora considerare una festa unitaria il 25 aprile. E se dobbiamo celebrarlo tutti insieme». La risposta è di quelle importanti, e spetta alla coscienza di ciascuno di noi. Il viaggio nell'inferno dei vinti è anche disseminato di dubbi. E nonostante il tono solo in apparenza assertivo, non impone soluzioni.

 

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