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Nova Historica – ott06 – Gli sloveni anticomunisti nella seconda guerra mondiale

di Luca Pignataro

La Slovenia come Stato indipendente è nata, come tutti ricordiamo, solamente nel 1991, separandosi dalla Iugoslavia, in cui era entrata nel 1919, quando quest'ultima si chiamava Regno dei Serbi-Croati-Sloveni (SHS). Prima di allora, le terre abitate da sloveni avevano fatto parte dell'Impero d'Austria, ma non in un'unica compagine amministrativa:
erano divise fra i /Länder/ di Stiria, Carinzia, Carnìola – con capitale Lubiana -, Gorizia e Gradisca, Istria e il territorio della città di Trieste. Si è discusso a lungo se possano essere definiti sloveni anche gli abitanti delle valli del fiume Natisone, in Friuli, i quali parlano dialetti slavi ma sono sempre rimasti legati politicamente prima a Venezia, poi all'Italia.

La nascita di un sentimento nazionale sloveno risale al secolo XIX, quando per la prima volta la lingua slovena venne usata nell'amministrazione, nella scuola e nella letteratura, ma esso non arrivò mai, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, ad auspicare un'indipendenza dall'Impero asburgico, come invece sarebbe avvenuto, per amore o per forza, dopo il crollo di quest'ultimo nel 1918, al termine della prima guerra mondiale. Neanche allora, però, gli sloveni si ritrovarono pienamente indipendenti e nemmeno del tutto uniti in un unico Stato.

L'inserimento nel Regno SHS, sotto la dinastia serba dei Karadjordjevi?, fu appoggiato dalla maggiore forza politica slovena del tempo, il Partito Popolare, di orientamento cattolico conservatore – la religione cattolica ebbe sempre una forte influenza presso gli sloveni e il clero un ruolo di guida anche nella cultura -, diretto da monsignor Anton Korošec, il quale, mostrandosi fedele a Belgrado, garantì per dieci anni una relativa autonomia alla sua terra, mentre il resto del regno era travagliato dalle contese fra i serbi e le altre popolazioni, specialmente croate e macedoni. Non è trascurabile il fatto che la Slovenia fosse la parte economicamente più sviluppata del Regno, con le sue industrie e miniere, anche se le campagne mantenevano la loro importanza e il Partito Popolare era molto forte negli ambienti rurali.
Nel 1928 per un breve periodo Korošec divenne addirittura Primo Ministro, malgrado la contrarietà degli ambienti serbi ostili alla Chiesa cattolica, ma il suo atteggiamento mutò nel 1929, quando Re Alessandro instaurò una dittatura ed uno Stato fortemente accentrato, cui diede il nome di Iugoslavia ("Slavia del sud"), reprimendo le autonomie locali. Il prelato sloveno recuperò la sua influenza nel 1934, dopo due anni di confino, la morte di Alessandro e l'avvento di un nuovo governo più incline a trattare con i gruppi nazionali; federò il suo partito all'Unione Radicale Jugoslava del primo ministro Milan Stojadinovi? e morì nel 1940, preoccupato dall'espansionismo della Germania hitleriana.

Una consistente porzione della popolazione slovena non era rientrata nei confini della Iugoslavia tracciati dagli accordi di pace del 1919-1920.
Una parte, dopo un /referendum/ – fatto che la storiografia slovena tende a trascurare -, rimase in Austria, nella Carinzia con capoluogo Klagenfurt, città chiamata in sloveno Celovec. La Carinzia è considerata dagli sloveni come la terra ove ebbe luogo il loro primo embrione di Stato, il Ducato di Carantania, nell'alto Medioevo.

Un'altra e più numerosa porzione si trovò a vivere all'interno del Regno d'Italia, che aveva inglobato, in quella che fu chiamata Venezia Giulia, tutte le terre sino alle Alpi Giulie, dalla Val Canale – il cui centro più importante è Tarvisio – alle valli dell'Isonzo – con Caporetto, Plezzo e Tolmino – e del Vipacco – con Aidùssina e Vipacco -, al Carso, al retroterra di Capodistria, alle zone di Postumia, Idria e del Monte Nevoso. Se, infatti, le città di Gorizia e Trieste, capoluoghi di quest'area, erano rivendicate dagli sloveni per la presenza in esse di una loro minoranza ma avevano pur sempre una maggioranza di popolazione italiana, è indubbio che le terre sopra elencate erano abitate in larghissima maggioranza o totalmente da sloveni e vennero incluse nei confini italiani per motivi puramente strategici.

La popolazione alloglotta, già contrariata dalla nuova sistemazione politica, divenne francamente ostile a quello che veniva vissuto come il dominio italiano quando al potere salì il fascismo, il quale, contrario com'era ad ogni forma di autonomia locale, lo era ancor più verso le minoranze nazionali, cui vietò l'uso della lingua materna non solo nelle istituzioni amministrative e nella scuola ma persino in chiesa. Solo pochi fra gli sloveni cittadini italiani aderirono al Partito Nazionale Fascista (Pnf), alcuni si arruolarono nei carabinieri, mentre negli anni 1920 nacquero organizzazioni nazionalistiche slave segrete – famosa fu la Tigr -, che commisero attentati terroristici, subendo una dura repressione con condanne a morte e risentendo dell'andamento altalenante delle relazioni fra Roma e Belgrado. Dopo un periodo di crisi all'inizio degli anni 1930, alla fine del decennio i rapporti fra Italia e Iugoslavia migliorarono: nel 1938 Benito Mussolini fece un viaggio in Venezia Giulia spingendosi sino alla località di confine di Planina, dove venne ossequiato dal /ban/ (governatore) della /banovina/ della Drava – di fatto corrispondente ai territori iugoslavi abitati da sloveni – Marko Natla?en.

Altri partiti sloveni fra le due guerre mondiali, ma con influenza ridotta, erano il Partito Liberale, favorevole all'accentramento iugoslavo e legato all'associazione nazionalista /Sokol/ ("falco"), e il Partito Socialista, mentre era dotato di una solida organizzazione clandestina il Partito Comunista, ufficialmente proibito, che tentava di ampliare il proprio scarso seguito – meno di mille adepti in tutto – organizzando associazioni di amicizia con l'Unione Sovietica, riconosciuta dal governo iugoslavo solo nel 1940.

Esistevano anche alcuni movimenti minori ma molto combattivi, in particolare la Guardia nella Tempesta ( /Straža v viharju/ ), composta da studenti universitari cattolici ispirati dal sacerdote professor Lambert Ehrlich, la cui figura recentemente è stata riscattata dall'oblio grazie agli sforzi di un altro sacerdote studioso di storia, Mario Gariup. Ehrlich, originario di Camporosso in Val Canale, era docente di teologia presso l'Università di Lubiana nonché studioso di etnografia e antropologia culturale, studioso competente, contrariamente a quanto riferisce con tono sprezzante lo storico italiano Marco Cuzzi, il quale sbaglia anche a definirlo "gesuita"- in realtà chiese di entrare nella Compagnia di Gesù ma non gli fu concesso – e, più in generale, ostenta un tono sommario verso la sua attività, etichettandola come "estrema destra collaborazionista". Ehrlich, in realtà, si preoccupava principalmente di educare gli studenti alla fede cattolica, combattendo l'influenza marxista che iniziava a farsi sentire negli ambienti intellettuali, e sognava l'unità del popolo sloveno finalmente libero dalla dominazione tedesca, italiana e serba e punto di collegamento fra le tre stirpi europee slava, latina e germanica. Il rifiuto della politica dei "fronti popolari", visti come un cavallo di Troia del comunismo, non era certo prerogativa di questo movimento sloveno o del fascismo, mentre l'ammirazione per i regimi autoritari e filocattolici dei Paesi iberici era diffusa in diversi movimenti nazionalisti dell'Europa centro-orientale. Leggendo la rivista del movimento, oltre all'ovvio anti-comunismo del movimento di Ehrlich diviene chiaro anche il suo anti-fascismo, che è però un po' più calibrato. Per esempio, si condannano duramente il razzismo e l'antisemitismo nazionalsocialista in quanto posizioni fondamentalmente materialistiche. Si condanna anche il corporativismo di Mussolini in quanto contrario al principio di sussidiarietà della dottrina sociale cattolica, ma si trovano parole di elogio per il regime portoghese di António Oliveira Salazar, in quanto riconosce il cattolicesimo come religione di Stato. La rivista è d'altronde piena di articoli sul corporativismo cattolico come forma sociale ideale. Per questo movimento, il concetto di nazione-popolo – il /narod/ sloveno – è un concetto-base, anche se è inteso soprattutto come entità spirituale e non darwinistico-materiale. Potremmo definire la /Weltanschauung/ di Ehrlich come un cattolicesimo nazionalista, corporativista e fortemente anti-comunista, che vedeva il liberalismo come matrice del comunismo.
Questo marcato anti-comunismo spinse la Guardia anche alla valorizzazione positiva del fascismo come antidoto contro il comunismo.

L'attacco italo-tedesco alla Iugoslavia, nell'aprile 1941, ne provocò il crollo in tempi brevi e rimise in gioco le sorti degli sloveni. La dirigenza del Partito Popolare seguì in esilio la casa regnante e il governo. I tedeschi occuparono e annessero la Slovenia settentrionale – Carnìola superiore e Stiria -: il nuovo confine non teneva in alcun conto le delimitazioni comunali preesistenti, ma era basato unicamente su considerazioni strategiche, lasciando inoltre ai nuovi dominatori la parte economicamente più vitale del territorio sloveno. L'area annessa al /Reich/ vide un'intensa e brutale germanizzazione e nazificazione, con deportazioni forzate di migliaia di abitanti; molti furono coloro che fuggirono più a sud, in particolare quasi ventimila nella zona occupata dalle truppe italiane e annessa al Regno d'Italia come provincia di Lubiana, che contava circa trecentoquarantamila abitanti.
Essa sarebbe stata retta da un Alto Commissario assistito da una Consulta slovena; fu promessa una certa autonomia, mentre i suoi abitanti non acquisirono la piena cittadinanza italiana. Vi fu introdotto il Pnf, con scarso successo. I contrasti fra l'Alto Commissario, Emilio Grazioli, e le autorità militari, /in primis/ il generale Mario Robotti, comandante dell'XI Corpo d'Armata, acuitisi con la diffusione del movimento partigiano, sfociarono nella proclamazione della provincia quale "zona d'operazioni"(luglio 1943) in cui i poteri erano praticamente nelle mani del comando militare.

I politici sloveni non comunisti e il vescovo di Lubiana, mons. Gregorij Rožman, videro l'occupazione italiana come male minore rispetto a quella tedesca, in attesa di una vittoria degli Alleati che ribaltasse la situazione. I partiti tradizionali, fortemente anglofili, avevano deciso di intraprendere la difesa in sintonia con il governo iugoslavo esule a Londra, il quale si trovava a sua volta in totale sintonia con gli inglesi. Il generale serbo Draža Mihajlovi? fu nominato capo della difesa della Iugoslavia in patria, ossia del movimento dei /cetnici/ .
Questa unica organizzazione di difesa legittima della Slovenia e della Iugoslavia decise di non andare allo scontro diretto con l'occupante, per paura delle rappresaglie contro la popolazione civile, e intraprese azioni di disturbo delle linee ferroviarie, aspettando l'avvicinamento dei fronti, quando la situazione sarebbe stata più propizia per una rivolta generale e totale.

Il Partito Comunista Sloveno intuì la debolezza della posizione dei partiti democratici, che si rivelava nella loro passività iniziale.
Intraprese perciò, ma solo dall'estate del 1941, subito dopo l'attacco tedesco contro la Russia, un insieme combinato di attacchi diretti contro l'occupante e contro la concorrenza politica slovena. Obiettivo generale di queste operazioni era la conquista totale del potere alla fine della guerra. I comunisti ebbero l'accortezza di fondare un Fronte di Liberazione ( /Osvobodilna Fronta/ ), che comprendeva anche liberali di sinistra, cristiano-sociali e intellettuali progressisti; inizialmente chiamato Fronte anti-imperialista e diretto, sia pure unicamente con proclami verbali, contro le potenze capitalistiche e imperialiste – ossia la Gran Bretagna e la Francia -, mutò nome e
(parzialmente) posizione dopo la rottura del Patto Molotov-Ribbentrop del 1939. I comunisti, per ottenere seguito, cercarono di sottolineare il carattere nazionale della loro lotta, ma divennero sempre più evidenti l'importanza della lotta di classe nel loro programma e la loro egemonia all'interno del Fronte di Liberazione – che nel 1943 peraltro non contava più di duemila membri e controllava solo territori marginali -, definitivamente sancita nel febbraio del 1943, quando gli altri gruppi politici rinunciarono ad avere una propria organizzazione autonoma da quella comunista.

Il Fronte si proclamò immediatamente, senza alcuna base giuridica né morale, unico rappresentante del popolo sloveno in vista della sua liberazione e unificazione del paese e prese a definire traditori tutti coloro che non ne riconoscevano la guida, avessero o meno effettivamente collaborato con l'occupante, rendendo dunque impossibile la nascita di una resistenza non comunista all'occupazione straniera. I "traditori"potevano essere condannati a morte da speciali tribunali segreti senza dibattimento. Iniziò così una serie di eliminazioni, o meglio assassinii, degliesponenti di spicco sloveni non comunisti, in primis Ehrlich e Natla?en, ma anche di tutti coloro che, a qualsiasi livello, potevano rappresentare un'alternativa al predominio comunista; nei centri minori, molte persone venivano prelevate di notte dai partigiani e successivamente si veniva a conoscere la loro morte. Si ebbero uccisioni anche di donne e bambini.

Dall'altro lato, gli attacchi partigiani contro l'occupante italiano istigarono rappresaglie brutali, con fucilazioni di massa e incendi di villaggi. Molti sloveni finirono in campi di concentramento in Italia:
alcuni perché sospettati di favorire il movimento partigiano, altri, viceversa, per essere posti al riparo dalla vendetta partigiana.

La popolazione slovena si trovò sotto un doppio fuoco comunista: quello diretto delle eliminazioni, che iniziarono nel primo autunno 1941, e quello indiretto delle rappresaglie. I cattolici, tutti anglofili convinti, si trovarono così nella penosa posizione di doversi difendere dai comunisti sloveni, e quindi a chiedere all' occupante italiano le armi per questa difesa, e di essere paradossalmente visti dai britannici come alleati dell'occupante e quindi come loro nemici. Gli inglesi, che dapprima inviarono missioni presso i /cetnici/ , guardarono sempre più di buon occhio i "coraggiosi partigiani di Tito"che li aiutavano militarmente, fino a che, nel 1943, non disdissero del tutto il loro appoggio a Mihajlovi? e ai cattolici sloveni e fecero di Tito il loro protetto. Paracadutisti sloveni addestrati dai britannici in Egitto vennero mandati presso le forze partigiane, ma alla fine della guerra sarebbero stati considerati dal nuovo regime comunista come spie ed eliminati o costretti alla fuga.

Le forze anti-comuniste della provincia di Lubiana organizzarono nel 1942 corpi di "guardie civiche"o "di villaggio"( /vaške straže/ ): è bene ripetere che non si trattava di puro e semplice collaborazionismo con l'occupante, come invece ripeté la propaganda comunista e ancora si afferma nei libri di Cuzzi e di Rodogno, ma piuttosto dell'autodifesa della maggior parte della società slovena, in particolare dei contadini e degli abitanti dei piccoli centri, dove mancava una guarnigione italiana, nei riguardi del movimento comunista, che designò sprezzantemente queste formazioni col nome di "guardia bianca", in sloveno "/bela garda/ ". Il clero cattolico partecipò attivamente all'istituzione di tali gruppi armati, che gli italiani chiamarono Milizia Volontaria Anti-Comunista (Mvac) ed in tutto giunsero a contare nel 1943 circa seimilacinqueento uomini, una parte dei quali erano profughi dalla Stiria occupata dai tedeschi. A parte stavano i circa quattrocento /cetnici/ – chiamati dai partigiani "/plava garda/ ", "guardia azzurra"-, formalmente agli ordini di Mihajlovi?, i quali tentarono di infiltrarsi nella Mvac per volgerla contro gli occupanti al momento del preconizzato sbarco alleato nei Balcani, ma erano visti con diffidenza dai cattolici sloveni, fautori di una Slovenia autonoma sia pur nella Iugoslavia, mentre i /cetnici/ erano centralisti.

Nel 1942 i partiti politici anti-comunisti formarono una Alleanza Slovena ( /Slovenska Zaveza/ ), organismo semiclandestino che manteneva i rapporti da un lato con le autorità italiane occupanti e dall'altro col governo iugoslavo in esilio. I due principali partiti avevano istitutito ciascuno una organizzazione paramilitare e propagandistica
clandestina: i popolari la Legione Slovena ( /Slovenska Legija/ ), i nazional-liberali la Legione Sokolista ( /SokolskaLegija/ ), dalla quale poi si staccò una Legione Nazionale ( /Narodna Legija/ ), contraria alla collaborazione con i clericali. I capi sloveni anti-comunisti attendevano uno sbarco inglese in Istria come conseguenza della caduta dell'Italia, evento in vista del quale avevano preparato alcuni piani, ma i contrasti interni avrebbero gravemente nociuto alla loro causa.

Il piano del partito cattolico prevedeva che, al momento del crollo italiano, le guardie civiche e la legione slovena divenissero l'esercito nazionale sloveno, che avrebbe fatto parte dell'esercito regio iugoslavo. L'intero corpo avrebbe dovuto riunirsi nel castello di Turjak, dove i soldati sarebbero stati inquadrati in battaglioni agli ordini di ex-ufficiali di carriera iugoslavi che non avessero collaborato con gli italiani. Da lì l'esercito sloveno avrebbe marciato verso l'Istria per congiungersi con le forze britanniche.

Alla notizia dell'armistizio italiano, l'8 settembre 1943, i partigiani, però, benché inferiori numericamente, agirono con maggior prontezza.
Inviarono emissari presso i comandi italiani, presentandosi come rappresentanti degli Alleati, in ciò appoggiati dalla missione militare inglese, e convicendoli ad arrendersi a loro cedendo le armi. I militari italiani sarebbero potuti passare, se lo desideravano, a combattere nelle file partigiane contro i tedeschi o altrimenti potevano tornare disarmati in patria: molti però finirono prigionieri dei tedeschi. In pochi giorni, dunque, i partigiani divennero la forza meglio armata della provincia di Lubiana e raggiunsero il numero di seimila grazie a nuovi arruolamenti e alla coscrizione obbligatoria. Il 9 settembre sconfissero e fecero prigionieri i /cetnici/ . Frattanto, non tutti i comandanti delle guardie civiche, sparse in diverse guarnigioni, avevano ricevuto l'ordine di concentrarsi a Turjak. Le guarnigioni minori furono espugnate dai partigiani. Il gruppo radunatosi a Turjak non si rivelò efficiente a causa di una controversia sui futuri comandanti e si divise in due alla notizia dell'avvicinarsi dei partigiani, i quali, valendosi di carri armati e di cannoni italiani – spesso manovrati proprio da soldati italiani passati con loro -, dopo lunghi combattimenti, il 19 settembre ottennero la resa degli avversari. I prigionieri, guardie civiche e /cetnici/ , ricevettero la promessa di aver salva la vita, ma, trasferiti a Ko?evje, i comandanti e molti altri uomini furono uccisi.

Ciò che restava delle milizie slovene anti-comuniste fu riorganizzato nel nuovo corpo dei /domobranci/ ("difensori della patria") dal generale Leon Rupnik, già podestà di Lubiana e nominato dai tedeschi, nuovi occupanti, capo dell'amministrazione della provincia di Lubiana, inserita nella Zona d'Operazione Litorale Adriatico con le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume sotto controllo germanico. Il tentativo della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) di riottenere il controllo di queste province fu sostanzialmente vano e, nel caso di Lubiana, del tutto velleitario, dal momento che i tedeschi eliminarono l'amministrazione e le forze di polizia italiane, né permisero l'insediamento di Grazioli come Prefetto della Rsi, affidandosi, come già detto, a Rupnik, il quale, quantunque la sua provincia continuasse per diversi mesi a beneficiare di rifornimenti alimentari dall'Italia, si affrettò a cancellare ogni traccia della precedente subordinazione a essa, unico segno della quale rimasero un fascio repubblicano, istituito a Lubiana ma composto unicamente di pochi italiani rimasti e la circolazione della lira: nel settembre 1944, per fronteggiare la svalutazione, si giunse persino all'emissione di lire con buoni monetari recanti scritte unicamente in tedesco e sloveno.

I /domobranci/ , molto meglio organizzati ed equipaggiati delle precedenti guardie civiche, giunsero a contare circa quindicimila uomini
– gli effettivi tedeschi presenti nella provincia erano di molto inferiori -, a conferma del largo sostegno di cui il movimento anti-comunista sloveno godeva fra la popolazione. Il corpo aveva anche una efficiente polizia segreta e una forte organizzazione propagandistica, dirette a smascherare i comunisti. Pur collaborando coi tedeschi nella repressione del movimento partigiano, i /domobranci/ simpatizzavano per gli anglo-americani, ritenendo che questi, una volta sconfitta la Germania nazionalsocialista, si sarebbero volti contro l'Unione Sovietica e contro i comunisti. Rupnik riuscì a preservare le sue unità dalle ingerenze dei partiti politici dell'Alleanza, i quali si misero d'accordo su un comune programma politico, accettando la concezione federalistica del partito cattolico. Pur appoggiando moralmente i /domobranci/ nella lotta anti-partigiana, l'Alleanza però evitò di collaborare coi tedeschi e rimase in clandestinità, adottando un piano d'azione per la fine della guerra. Era previsto che essa avrebbe convocato un'assemblea parlamentare slovena composta dai deputati in carica durante l'ultima legislatura pre-bellica, i quali avrebbero nominato un governo provvisorio, ai cui ordini sarebbe stato posto un nuovo esercito nazionale sloveno.

Anche nel cosiddetto Litorale sloveno – la Venezia Giulia – dopo il settembre del 1943 sorse un movimento anti-comunista slavo, inquadrato in una Guardia nazionale del Litorale ( /Primorska narodna straža/ ), che collaborò coi tedeschi, i quali concessero alla popolazione slovena alcuni diritti – scuole e amministrazioni locali – malgrado l'opposizione dei fascisti italiani. Tale movimento, però, godette di un appoggio limitato anche da parte dei connazionali, in quanto l'organizzazione del movimento partigiano era, in quella zona, più capillare e più popolare, giungendo a coinvolgere molti sloveni non comunisti, giacché insisteva molto sulla lotta di liberazione nazionale contro italiani e tedeschi, quantunque da molti segnali fosse chiaro come i partigiani tendessero all'instaurazione di un regime comunista spietato.

Nell'aprile-maggio del 1945, quando ormai le sorti della guerra erano chiare, Tito lanciò i suoi partigiani verso Trieste, prima ancora che verso Zagabria e Lubiana. La maggior parte della Guardia nazionale del Litorale si ritirò verso occidente e il 3 maggio si arrese agli inglesi presso Gorizia, venendo poi trasportata a Eboli in un campo destinato ai reparti dell'esercito iugoslavo regio. Un'altra parte giunse per mare alla foce del fiume Tagliamento, donde i britannici la trasportarono a Bari. Alcune guardie e il loro comandante finirono invece uccisi dai partigiani.

Caduta Trieste nelle mani di Tito, l'Alleanza Slovena, come previsto, convocò un'assemblea di ex-deputati e di esponenti della vita sociale, economica e culturale. Questo parlamento sloveno clandestino si riunì a Lubiana la sera del 3 maggio 1945 e proclamò la nascita della Slovenia Unita, composta da tutte le terre slovene, compreso il Litorale, la Slovenia Veneta, la Val Canale e la Carinzia slovena. La Slovenia Unita avrebbe fatto parte di una Iugoslavia federale sotto Re Pietro II.
L'assemblea elesse un Comitato Nazionale per la Slovenia ( /Narodni odbor za Slovenijo/ ) con compiti di governo provvisorio, e stabilì la formazione di un esercito sloveno con le formazioni già esistenti. Il comitato garantì libertà a tutti i partiti politici ed esortò i partigiani a sospendere gli attacchi contro l'esercito sloveno.

Il 4 maggio il comitato cercò di persuadere i tedeschi a cedere il potere, ma invano. Prima però che questo contrasto passasse alle armi, i partigiani iniziarono ad avanzare verso Lubiana, abbandonata il 5 maggio dal Comitato Nazionale per la Slovenia diretto in Carinzia, seguito dall'esercito, che il 12 maggio si arrese alle truppe britanniche in Austria. I soldati e i molti civili che li accompagnavano furono posti in un campo di prigionia e, fra il 24 e il 31 maggio, vennero consegnati dagli Inglesi ai partigiani comunisti iugoslavi, che trucidarono circa dodicimila sloveni nelle foreste di Ko?evski Rog.

Alcuni personaggi di spicco vennero condannati a morte dopo una parvenza di processo, in particolare il generale Rupnik e, in contumacia, il vescovo Rožman, il quale morì in esilio nel 1959. Vogliamo qui ricordare lo scrittore cattolico Narte Velikonja, il quale, condannato a morte per aver criticato il comunismo nelle sue opere, ebbe il coraggio di smascherare anche in un frangente così grave quell'ideologia, dichiarando ai suoi giudici: /«Non voglio vivere nella vostra libertà»/ .

Queste stragi e la nuova oppressione vennero evocate dalla pubblicistica degli esuli sloveni all'estero, specialmente in America, mentre in madrepatria la repressione del regime comunista portava, fra l'altro, a un'aggressiva persecuzione contro la Chiesa, durata almeno fino agli anni 1960, e impedì per decenni l'analisi delle tragiche vicende legate alla guerra, vista unicamente come lotta popolare di liberazione dal fascismo guidata dal movimento partigiano comunista. Solo negli ultimi anni, con l'indipendenza e la libertà politica finalmente acquisite, in Slovenia si parla di riconciliazione nazionale ma anche di riabilitazione delle vittime del totalitarismo comunista e compaiono monumenti funerari nei luoghi, tra cui alcune foibe, che videro le orrende uccisioni di tanti sloveni invisi ai nuovi dominatori.

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