di SERGIO BARTOLE
Giustamente in un suo recente articolo meno ottimista di altri suoi contributi (penso, ad esempio, ad un elogio dell'erezione di Trieste a capitale dell'Euroregione scritto quando ancora non era chiaro di che cosa si trattasse) Giorgio Pressburger ha rilevato che Trieste si giuoca il suo futuro in una ossessiva reiterazione di antichi contrasti e duelli. Al ritorno dalle ferie apprendiamo che antiche contrapposizioni si vanno riproponendo prendendo lo spunto dalla ripresentazione ad opera del governo sloveno del concetto di territorio etnico e dalla connessa esplorazione del tema dell'etnonazionalismo. Ad una dogmatica accettazione di questo si addebita l'idea che i legami che rendono unita una comunità nazionale siano quelli della comune identità etnica espressa in termini di tradizionale insediamento su un territorio e, per traslato, di comunanza di sangue fra le generazioni che in quel territorio si sono succedute. L'identificazione della comunità viene trasferita al territorio, ed è nel caso sloveno il territorio sul quale si afferma essersi perpetuata una presenza continua ed ininterrotta di una comunità slovena.
Ha ragione Valdevit, è un discorso troppo spesso ripetuto ed utilizzato nei rapporti politici e diplomatici. Ma dalla reiterazione nel passato è credibile dedurre l'inevitabilità della futura ricomparsa di quello stesso discorso? E' dunque solo wishful thinking l'anelito di speranza ed ottimismo che traspare dalle righe di un articolo di Claudio Magris, pure esso comparso sulle pagine di questo giornale?
La conoscenza della dimensione civica e costituzionale di processo di unificazione europea in atto dovrebbe renderci avvertiti che i termini istituzionali della situazione in Europa sono mutati e che non è più il tempo delle polemiche sull’etnonazionalismo che hanno visto schierati su fronti contrapposti italiani e sloveni di diverse militanze politiche e appartenenze sociali. L’Unione europea non conosce territori etnici, perché non riconosce riserve territoriali esclusive a danno dell’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali di cui i suoi cittadini debbono godere in qualsiasi sua parte. Tutto il territorio dell’Unione è a disposizione di coloro ai quali l’Unione garantisce la cittadinanza europea, e questa possibilità di fruizione di libertà e diritti così egualmente distribuita rende inutile e vanifica ogni discorso che si voglia fare in termini di etnicità territoriale, come ci impone di lasciarci alle spalle ogni rivendicazione che metterebbe in discussione quella pace e quella sicurezza in Europa per la cui garanzia l’Unione Europea è stata istituita e si è sviluppata.
È questa grande trasformazione che consente di guardare con fiducia e speranza al superamento di antiche contrapposizioni. Certo non vi è ragione di stupirsi se da taluno è stata espressa meraviglia per la riproposizione di un antico armamentario dogmatico e ideologico. Gli ideali di libertà e di democrazia vogliono tempo per mettere radici in un paese: la storia politica della Repubblica Italiana offre indicazioni utili a tale riguardo. Ma la meraviglia non deve manifestarsi in polemiche e critiche astiose e supponenti. Essa deve costituire la base di partenza di una apertura di dialogo ad opera di quanti condividono il pensiero liberale e democratico. Anche da noi come in tutta Europa costoro debbono ricercare un confronto e una discussione di socratica maieutica con gli intellettuali degli Stati di recente adesione all’Unione Europea, evitando loro l’umiliante compito della difesa d’ufficio dei loro governi. Questi hanno accettato i principi fondamentali dell’Europa unita ed è bene che nel dialogo con gli Stati fondatori mettano alla prova quei principi elaborandone i significati e la portata. Affinché, ad esempio, non accada più ciò che è accaduto a chi scrive durante i lavori della Commissione storica italo-slovena allorché si vide respingere la proposta volta a sottolineare che da entrambe le parti c’erano state gravi violazioni dei diritti umani. Fu allora speciosamente obiettato da parte slovena che fra la fine della guerra e il dopoguerra la Jugoslavia non aveva ancora ratificato i relativi strumenti internazionali. Quasi che tale ratifica fosse necessaria per mettere in pratica ideali per i quali la seconda guerra mondiale è stata combattuta e vinta.