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Nico Giraldi: da Pirano ai cantieri giuliani (Il Piccolo 27 lug)

di FULVIO MOLINARI

«Quanto può durare una barca in legno? Fin che c’è legno nel bosco la barca non muore mai!».
Nico Giraldi, settantasei anni ad agosto, maestro d’ascia fra i più bravi (forse il più bravo) in Adriatico nel ricavare dal legno le creature che si chiamano barche, non ha dubbi. Perché se la pioggia (non l’acqua salata) fa marcire un pezzo di coperta, o di fiancata, basta prendere del legno, e fare un innesto. E la barca torna come prima.
Ma per fare l’innesto bisogna avere mani sapienti, come quelle di Nico, che si muovono nell’aria a tracciare, mentre racconta, le sagome delle settanta imbarcazioni che ha costruito, o ristrutturato, nella sua lunga vita di lavoro, da quel lontano 1949, quando è entrato nei Cantieri Piranesi, e ha cominciato ad imparare il mestiere da maestri che da sempre costruivano imbarcazioni: Tamaro, Trani, Desina, Cassetti, e dal capo, “il signor Apollonio” – lo chiama ancora così – con il rispetto dovuto a chi dirigeva l’azienda. Nato a Pirano, cittadina da sempre protesa sul mare, Nico Giraldi che pur da piccolo giocava e lavorava nelle campagne attorno a Sicciole, aveva un destino segnato. Il tormentato dopoguerra dell’Istria lo ha portato qualche anno dopo ad emigrare in Argentina, dove è rimasto per tredici anni, e anche laggiù ha sempre lavorato con il legno, a fare barche da lavoro. Ha anche costruito un dragone per un velista che doveva andare alle Olimpiadi, «ma poi non l’hanno mandato perché non era peronista», e ha messo assieme il suo primo albero “incollato”. «Perché una volta si pensava che l’albero di una barca doveva essere tutto di un pezzo, ricavato da un fusto il più dritto possibile, e poi lavorare di sega e pialla per farlo diventare quadrato e quindi rotondo, fino a raggiungere il diametro voluto. E’ dopo il ’50 che si è capito che l’albero è più robusto, e flessibile, se lo si costruisce incollando lunghe aste di legno, quello di prima qualità, senza nodi. Come un tubo di ferro che è più resistente di un’asta dello stesso spessore». Da quella volta, ricorda Nico, a mettere in fila tutte le alberature che ha costruito si superano i trecento metri, e anche adesso che è in pensione lo chiamano talvolta dal cantiere Alto Adriatico di Monfalcone proprio a sovrintendere alla costruzione degli alberi per le bellissime barche che escono da quello stabilimento che ha raccolto, e conserva, molte delle esperienze e delle professionalità espresse dai piccoli cantieri della costa istriana, di Lussino, di Trieste.
Tornato dall’Argentina, dove moriva di nostalgia, Nico ha subito trovato lavoro al cantiere Craglietto. Qui ha conosciuto il suo futuro socio, Sergio Crisman. Dopo qualche anno Nico e Sergio hanno avuto il coraggio di mettersi in proprio, confidando nella sapienza delle loro mani, e nell’esperienza nel trattare il legno, e nel sceglierlo. «Perché una barca sia di prima qualità il legno conta tantissimo: prima si usa il rovere, per il paramezzale e le ordinate per fare la gabbia, e si taglia l’albero a giro. Per i nervolini si usa l’acacia, che è più maneggevole, e accetta di curvarsi nell’acqua calda, prima di essere collocata sulle fiancate, e incollata». «Una volta – ricorda – si usava la colla rossa, detta “Ciba”, che bisognava scaldare in un pentolino, e poi spalmare nei posti giusti. Ora con le colle epossidiche è tutto più facile e sicuro, e con il sistema del fasciame incollato, da tre a cinque strati, a seconda delle diverse parti dello scafo, le barche sono robustissime, e durano una vita».
I nomi della barche uscite dalle mani di Nico sono annotati su una serie di foglietti color verdognolo che tiene in un portafogli pieno di carte, e di ricordi.
Dal primo peschereccio nato nel capannone della ex Fonderia Frausin in via Flavia, alle tante barche a vela che hanno tracciato infinite rotte lungo l’Istria e la Dalmazia, e primeggiato in regata. Nel ’67 Nico e Sergio hanno costruito il Marie per la famiglia Pesle, e tre anni dopo la barca ha vinto la Barcolana, la seconda della ormai lunga storia della regata d’autunno. E’ stata, il Marie, l’occasione dell’incontro con il grande Carlo Sciarrelli , sui cui progetti Nico ha creato diciassette magnifici scafi. A chiedergli i nomi delle imbarcazioni gli occhi di Nico si illuminano dietro gli occhiali (la vista non è più quella di una volta), e nella voce si sente un filo di commozione. La memoria va a stagliare il profilo di scafi bellissimi, come l’Auriga, sempre per i Pesle, l’Arione di Colella, l’Airone di Ballico, El Cid di Bartoli e Zago, e poi ancora Raggio di Sole, Alema, Papusso, Fraya, Valentina, G-Race, Niobe, Lisa, e l’allestimento del Vento di Mare di Rizzi e Cumar, finito in fondo all’Atlantico a causa di una tempesta che ha investito Paolo Rizzi al rientro dalla Portofino-New York e raccolto miracolosamente da una nave fuori dei banchi di Terranova dopo cinque giorni di permanenza nella zattera di salvataggio.
Quello di maestro d’ascia è mestiere antico, che si va perdendo con l’avvento della vetroresina ed ora del carbonio. Dai cantieri escono più motoscafi che barche a vela: «Le macchine hanno sostituito, per gli interni – annota Nico – i maestri d’ascia, e ora basta l’ingegno di un bravo falegname». Per sé Nico Giraldi ha ristrutturato una passera lussignana uscita trent’anni fa dalla matita di Sciarrelli. La barca si chiama Darma, nome che evoca vicende salgariane, e non mostra affatto la sua età, perché è tenuta come un gioiello. Nico ci naviga in tutte le stagioni, con in testa un berretto che forse ha la stessa età dell’imbarcazione: un vezzo, forse un modo per farsi riconoscere dagli amici che incrocia in mare.
E a proposito di incontri il maestro d’ascia ama raccontare di uno speciale, la volta che era andato in gita a Brioni. Dal piccolo traghetto che porta sull’isola i turisti aveva visto, attraccata alla banchina, una barca che attirava l’attenzione dei compagni di viaggio, molti dei quali sfoderavano macchine fotografiche. Anche a Nico la barca pareva bellissima. Quando il traghetto fu più vicino ne lesse il nome: Aglaia. “L’ho fatta io!” gli scappò di dire, e quasi si commosse per aver ritrovato una sua creatura.

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