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Nel ’44 il Terzo Reich inviò le Ss per fare prigioniero Tito (Il Piccolo 01feb13)

La mattina del 25 maggio 1944, giorno del suo compleanno, il maresciallo Josip Broz Tito sentì il rombo di due aeroplani provenire dalla vallata sottostante il suo imprendibile rifugio scavato in una caverna sulle pendici della montagna alle spalle di Drvar, piccola cittadina della Bosnia nord-occidentale. Quella mattina Tito non doveva trovarsi lì, ma nel segretissimo rifugio di Bastasi, cinque chilometri più in là. Invece la sera prima era andato a vedere un film e il giorno dopo voleva festeggiare il suo compleanno con i giovani comunisti di Jugoslavia. Perciò il comandante degli otto corpi mobili partigiani che, assieme ad altre 26 divisioni, stavano dando seri grattacapi alle forze d’occupazione naziste era rimasto nella base di Drvar. Quando uscì di corsa dalla caverna per vedere cosa stesse accadendo, Tito vide dietro ai due bombardieri Junkers 87 Stuka in picchiata comparire altri apparecchi, più lenti: erano alianti dai quali si stavano lanciando ottocento paracadutisti.

Il maresciallo non poteva ancora saperlo, ma quei puntini bianchi nel cielo erano gli uomini del 500° battaglione paracadutisti SS, un’unità di disciplina composta in buona parte da soldati arruolati nelle prigioni e nei campi di concentramento dov’erano rinchiusi per reati di vario genere, giovani che non avevano nulla da perdere e tutto da guadagnare. Il lancio dei parà era l’azione di punta dell’operazione Rösselsprung, “mossa del cavaliere”, un audace attacco coadiuvato da forze di terra che aveva lo scopo di circondare il quartier generale dei partigiani e colpire proprio lui, il maresciallo Tito, catturarlo o ucciderlo. Ciò che accadde prima, durante e dopo il blitz delle forze speciali tedesche contro la roccaforte dei partigiani jugoslavi lo racconta ora lo storico britannico (nonché ufficiale della Royal Air Force impiegato anche in Afghanistan) David Greentree nel libro “Caccia a Tito” (pagg. 126, Euro 16,00), pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana nella collana Bam-Biblioteca d’arte militare (tradotto da Rossana Macuz Varrocchi, illustrazioni di Johnny Shumate e Mark Stacey), e da oggi nelle librerie.

Come nella trama di un film, con l’ausilio di rare fotografie scattate dai giornalisti al seguito della missione e cartine illustrative, Greentree ricostruisce momento per momento la battaglia di Drvar, dalla quale Tito riuscì a sfuggire per un soffio. Da bravo storico militare, l’autore entra nel dettaglio degli armamenti e delle formazioni in campo, analizzando errori, successi e tattiche, spostando il punto di vista da uno schieramento all’altro. Il risultato è un racconto serrato che mette in rilievo alcuni fattori in apparenza minori ma che alla fine, messi insieme, risultarono determinanti per l’esito dei combattimenti. Come ad esempio le armi e munizioni che i partigiani avevano sottratto all’esercito italiano dopo l’8 settembre, in particolare i piccoli e maneggevoli carri armati leggeri CV 35, che i tedeschi non si aspettavano di trovare a bloccare loro il passo. O l’impiego massiccio dell’aviazione angloamericana, una volta che gli alleati si erano resi conto di cosa stesse accadendo.

Che i tedeschi stessero tramando qualcosa l’intelligence lo sapeva, gli esperti del controspionaggio di Bletchley Park avevano decrittato numerosi messaggi. Ma nessuno era riuscito a mettere insieme il puzzle delle informazioni, e l’attacco tedesco a Drvar aveva colto tutti di sorpresa. La reazione degli alleati fu immediata, guidati dagli osservatori partigiani a terra i bombardieri B17 e i caccia P38 picchiarono duro sugli assalitori mettendo presto fuori uso anche l’aviazione tedesco-croata. Ma, nota Greentree, se Tito potè uscire indenne dalla sacca di Drvar fu soprattutto per merito del coraggio dei suoi uomini. Pur essendo riuscito ad allontanarsi da Drvar, Tito restava vulnerabile: «L’operazione Rösselsprung avrebbe ancora potuto intercettarlo lungo la strada su cui stava cercando la salvezza, se non fosse intervenuta la difesa organizzata dai partigiani e in particolare dalla 1.a divisione proletaria che affrontò la 7.a divisione SS “Prinz Eugen”». La battaglia durò dieci giorni e costò la vita a 1.916 partigiani, mentre altri 161 furono catturati e 35 disertarono.

«Le perdite dei tedeschi – nota Greentree – furono ufficialmente di 213 soldati caduti, 881 feriti e 57 dispersi: numeri di gran lunga inferiori alla realtà». Dopo una lunga fuga nei boschi e poi in treno accompagnato dai suoi fedelissimi e dall’amato pastore alsaziano Tiger (che il maresciallo avrebbe confessato di aver pensato più volte di sopprimere perché i suoi guati rischiavano di farlo scoprire, ma di non averne avuto il coraggio), Tito accettò l’evacuazione a condizione che gli venisse data la possibilità di stabilire il suo quartier generale a Lissa. Il 3 giugno un aereo sovietico atterrò sulla pista di Kupresko Polje e portò il maresciallo a Bari, dove trascorse due notti prima di imbarcarsi sul cacciatorpediniere “Blackmore” e salpare per Lissa accompagnato dal diplomatico, militare e scrittore Fitzroy MacLean. Arrivato a Lissa, scrive Greentree, Tito «ancora una volta stabilì il suo quartier generale in una caverna sulle montagne.

“Il più grande nemico” era di nuovo al timone del comando». In un primo momento i comandi germanici pensarono di spedire i feroci parà del 500° battaglione SS anche su Lissa, poi lasciarono perdere, e il reparto speciale, promosso e non più disciplinare, continuò a operare su altri fronti oltre le linee nemiche fino agli ultimi giorni di guerra. «A Drvar – conclude il suo libro lo storico britannico – Tito rischiò e mise in pericolo l’intera struttura di comando. L’operazione aviotrasportata fu quella che portò i tedeschi vicinissimi al loro scopo, cioè alla cattura del maresciallo. Se ce l’avessero fatta, probabilmente l’esito della guerra partigiana non sarebbe stato diverso, ma nel medio termine i tedeschi avrebbero avuto come avversario un movimento partigiano confuso e senza un vero leader». Più pesanti sarebbero state invece le conseguenze per il futuro della Jugoslavia: Stalin ne avrebbe potuto fare un boccone. Invece Tito rimase in sella, pronto a guidare la riscossa fino alla vittoria finale.

Pietro Spirito
“Il Piccolo” 1° febbraio 2013

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