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Nato un centro per la cultura veneta. Dove? A Capodistria (Mattino Padova 22 lug)

Si vuole qui raccontare come la cultura faccia più Europa di quanto succede a Bruxelles o Strasburgo. Di come possa superare i confini volando alto e subito dopo atterrando tra la gente: quella di oggi, ma anche quella dei secoli passati. Perché la cultura utilizzata, in questo caso, è quella degli storici. Così, succede che a Capodistria si sia formato un Centro di ricerca per la storia di Venezia, che è una notizia forte ed entusiasmante per tutto ciò che significa: un ponte tra due Stati, Italia e Slovenia, spesso contrapposti proprio su questioni derivate dalla storia; un lavoro comune che vuol dire riconoscimento di un passato di riferimento condiviso e da leggere in chiave attuale; infine, ma soprattutto, il superamento di stratificazioni ideologiche (quelle fasciste italiane, quelle comuniste titine) che di fronte alla storia vera, quella dei secoli, dimostrano tutta la loro evanescenza.

 

Come spesso accade, le belle idee camminano con le gambe di persone fisiche. Anche in questo caso: da una parte, a Capodistria Koper c’è il professor Darko Darovec, medievista e modernista e grande organizzatore; a Venezia Ca’ Foscari il professor Claudio Povolo, allievo di Gaetano Cozzi, storico dai multiformi interessi: dalle tradizioni popolari alla koinè mediterranea, dal governo della Serenissima ai sistemi sociali e al ruolo delle religioni. Questa storia di persone, storia di storici, parte vent’anni fa. A Capodistria, spopolata dall’esodo degli italiani, ad inizio anni novanta si forma un piccolo gruppo di intellettuali raccolti attorno all’Archivio di Stato, tra loro anche il direttore del locale museo: si battezzano Società storica del Litorale, sembra una delle cento iniziative localistiche. Un angolo di provincia con idee tutt’altro che provinciali. Il giovane, allora, Darko Darovec è il motore: con coraggio decide che il primo convegno espressione pubblica del suo gruppo sia dedicato a «Venezia e l’Istria». Sembra quasi ovvio ma non lo è. Nel 1991, ben prima che l’idea di Europa cominci a realizzarsi, nell’ex Jugoslavia e quindi in Slovenia, sono forti le folate anti italiane. E occuparsi di Venezia per molti significa occuparsi dell’Italia, con un errore storico evidente ma non avvertito dalla politica.

 

Le tracce più recenti – ferite non ancora rimarginate, da una parte e dall’altra – sono l’occupazione fascista e l’italianizzazione spinta di quelle terre, i soprusi e le vendette, le due stagioni delle foibe (1943 e 1945, da rileggere con attenzione), e poi i confini, e poi l’esodo in massa degli italiani, l’irrisolta questione dei loro beni… Per la memoria recente, questi sono gli italiani per gli sloveni; e viceversa, gli italiani si sentono da decenni profughi e derubati, in una contrapposizione che il ricorrente ricordo degli esuli non sopisce: ricordiamoci che esiste ancora, qui da noi, il Comune di Fiume in esilio. Darovec tira dritto, fa il suo convegno e chiama da Venezia Claudio Povolo, superando le ostilità della politica e dello stesso mondo universitario, che allora vuol dire Lubiana. Il convegno recepisce il principio del common heritage, quell’eredità comune che unisce invece di dividere. Quel consesso di studiosi intacca un tabù, incrina la crosta della diffidenza, apre una porta.

 

Ogni due anni a Capodistria il Centro di Ricerche Scientifiche organizza un convegno, sulle tematiche più diverse: arrivano storici da tutt’Europa e anche dagli Stati Uniti. Negli anni, il centro diventa sempre più dinamico: ci lavorano 80-100 ricercatori, che cercano nella storia, ma soprattutto cercano finanziamenti europei per i loro studi, quello che da noi si fa poco o niente. In questo Darovec è un mago, i suoi progetti sono seri e vengono accolti.

 

Il Centro di Capodistria diventa così forte che la sua gente può dar vita all’Università di Koper, indipendente da quella di Lubiana: il che è un successo anche politico. Claudio Povolo è l’italiano del gruppo: ed è paradossale che di questa sua attività si stupiscano più a Venezia che a Koper. In fin dei conti si deve al “coraggio” di Darovec e alla presenza di Povolo se in qualche modo Venezia si esporta dove per secoli c’era già. Ma si avanti: il primo Centro, poi l’Università e ora il Centro Interuniversitario per il Patrimonio Storico-Culturale Veneto ricerche per la storia di Venezia, il cui significato va molto oltre il suo nome. Va molto oltre, per esempio, a tutte le iniziative sull’identità veneta partorite dalla politica leghista di casa nostra. Nasce, il Centro, da presupposti diversi e da un progetto battezzato Shared Culture, cultura condivisa. Spiega Povolo: «Per ritrovare una comune identità culturale spogliata da ogni nazionalismo», e bisogna riconoscere che è uno sforzo soprattutto sloveno.

 

I rapporti sempre più stretti tra studiosi dalla visione larga forse sconfiggono le posizioni di pancia di qua e di là del confine. Soprattutto un concetto è chiaro, da una parte e dall’altra: i vent’anni di fascismo non fondano un’italianità che in questo modo diventa pretestuosa e le conferiscono connotati distorti. Molto meglio ritrovare radici comuni e vicende condivise tornando indietro nella storia, quando governava Venezia. Che, tanto per dire, nel Cinquecento, per ripopolare l’Istria svuotata da una pestilenza, introduce popolazioni slave, regalando terre ai Morlacchi perché si insedino. Altro che l’italianità dei muscoli e dei podestà in orbace…

 

Dice Povolo: «Si tratta di decostruire tutto il periodo successivo alla presenza della Serenissima», il che significa proporre ragioni diverse per la cultura condivisa. Certo, l’idea di Europa e il processo politico dal 2000 in poi hanno aiutato, ma pare che a Koper sloveni e italiani ci siano arrivati prima e insieme. Con gli studi, con i convegni, che però non sono stati solo parole. Insomma, è questo il piccolo miracolo da raccontare, il risvolto concreto, l’idea che si traduce in qualcosa di tangibile. È nato il centro studi per la storia di Venezia, che è fifty fifty sloveno e italiano: nel comitato scientifico ci sono tre docenti sloveni e tre italiani, tutti di Ca’ Foscari: Luciano Pezzolo, Paolo Eleuteri e naturalmente Claudio Povolo, onorato anche con il ruolo di presidente. Si “tocca” fisicamente il Centro: perché il comune di Capodistria ha donato palazzo Baseggio-Tiepolo, naturalmente appartenuto a famiglie veneziane, e lo sta restaurando. E al restauro ha collaborato anche Guido Biscontin, altro docente veneziano. Tutto naturalmente con denaro sloveno, magari ottenuto dall’Europa, ma sloveno. Venezia, s’intende l’Università e la Regione, non ci hanno messo un euro. Ora la Regione parteciperà alla pubblicazione di uno studio sulle suppliche alle magistrature veneziane provenienti dall’Istria dal ‘500 in poi, che è una goccia nel mare ma almeno è una goccia.

 

A Ca’ Foscari, quando è stato presentato ufficialmente il Centro neonato a Capodistria dopo vent’anni di collaborazione diciamo così individuale, il rettore Carraro era impegnato ad illustrare l’iniziativa Art Night: encomiabile, al passo con i tempi, mediaticamente suggestiva. Ma diversa dalla shared culture che apre orizzonti diversi tra italiani e sloveni. Perché la cultura apre strade a tutto il resto, favorisce la comprensione, sgretola i pregiudizi e facilita, per esempio, anche gli scambi commerciali. Il prossimo convegno, a maggio nel palazzo Baseggio-Tiepolo finito di restaurare, sarà dedicato alle : sul concetto di difesa dell’identità, ogni gruppo per sé, con le cause e gli effetti. Insomma, si mette il dito proprio sulla piaga. Per farla rimarginare.

 

Paolo Coltro

“Il Mattino di Padova” 22 luglio 2012

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