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L’Osservatore Romano – 250807 – Una vita per i profughi giuliano-dalmati

di Gaetano Vallini

Fu il primo a rompere la cappa di silenzio e di omertà sulle foibe, quando nessuno osava parlarne. Fu lui a far porre finalmente una pietra e un modesto cippo sulle foibe di basovizza e Monrupino, le uniche rimaste in territorio italiano”. Così Lucio Toth, presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd), ricordava Padre Flaminio Rocchi l’11 giugno 2003 nell’ultimo saluto a un compagno di tante “battaglie”, al termine del rito funebre. Un ricordo appassionato e grato, del “frate degli esuli”, che operò caritatevolmente per cinquant’anni al gratuito servizio delle necessità dei profughi giuliano-dalmati, e che ora è possibile leggere, insieme con altre testimonianze, nel libro biografico “Padre Flaminio Rocchi: l’uomo, il francescano, l’esule”, edito dall’Anvgd e curato dal nipote Fabio Rocchi, attuale Segretario nazionale dell’Associazione.

Quattro anni di ricerca portano alla luce alcuni inediti

Il volume raccoglie il frutto di quattro anni di ricerche d’archivio, attraverso l’analisi di migliaia di documenti. Nelle 160 pagine trovano spazio anche gli appunti, gli inediti e le lettere del sacerdote francescano riconosciuto dagli istriani, dai fiumani e dai dalmati quale guida spirituale e morale, ma anche fermo punto di riferimento per la ricostruzione materiale di un’identità familiare e comunitaria strappata dalla barbarie della pulizia etnica al termine della Seconda guerra mondiale. Non mancano gli interventi, oltre un centinaio, di personalità, autorità e semplici esuli, che disegnano con le loro parole il volto e il cuore del frate. E se è vero che Padre Rocchi ha lasciato il suo testamento nel volume “L’esodo dei 350.000 istriani, fiumani e dalmati”, questa biografia -singolare compendio della sua vita- lascia emergere gli aspetti meno conosciuti, più privati e intimi del frate. E proprio alla sua vocazione francescana è dedicato ampio spazio, perché, come scrive l’autore, “era il fondamento della sua esistenza. Tutto ciò che ha fatto e vissuto ha indelebile segno nella sua vocazione”.
Antonio Soccolich, questo il suo nome all’anagrafe, nasce nel luglio del 1913 tra le “masiere” di Neresine, un paese sull’isola di Lussino, terra di contadini e pescatori: “Il luogo migliore per diventare francescano”, sottolinea Toth, con “la bellezza e la severità della natura; il cuore e le tribolazioni degli uomini e delle donne di una terra dura”. A 12 anni entra in seminario, approfondendo la sua vocazione a Venezia. Nel 1937, a 24 anni, è ordinato sacerdote nell’Ordine dei Frati Minori. Durante la Seconda guerra mondiale, dal 1943 e fino al 1948, è cappellano militare in Sardegna, Corsica, Toscana e Lazio.

L’avvicinamento ai problemi dei profughi giuliano-dalmati

Nel 1948 inizia il suo avvicinamento ai problemi dei profughi giuliano-dalmati, conducendo una trasmissione radiofonica nazionale a loro dedicata. La sua attività si fa via via più intensa. Dirige il Collegio “Figli dei Profughi” all’Eur di Roma, che diventerà poi la “Casa della Bambina” nel quartiere giuliano-dalmata. Assume l’incarico di direttore dell’Ufficio assistenza dell’Anvgd per essere vicino ai suoi profughi persino nelle necessità materiali. Sarà, tra l’altro, anche membro dell’Awr, l’associazione per lo studio del problema mondiale dei rifugiati, organismo consultivo dell’Onu e del Consiglio d’Europa (gli verrà affidata la presidenza del comitato culturale), nonché membro della Pontificia Opera di Assistenza.
Nel corso dell’intensa, instancabile attività, Padre Rocchi è promotore di 150 provvedimenti legislativi in favore dei profughi, impegnato nelle Commissioni interministeriali per i danni di guerra e i beni abbandonati dei profughi della Venezia Giulia e Dalmazia. “Erano i ‘suoi’ profughi -ricorda Toth-. Parlavano il suo dialetto. Venivano da dove lui veniva. Erano migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia. Come stormi di uccelli che non sapevano dove posarsi. E che nessuno voleva. Flaminio andò loro incontro. Li andò a cercare: nei campi-profughi; tra i prigionieri che tornavano dall’India e dalla Russia, dal Sudan e dalla Germania; anche negli ospedali e nei manicomi, relitti di una tempesta senza nome che era passata su di loro. E con umiltà, coraggio, determinazione li convinse ad affrontare il destino, a restare in piedi, a guardare avanti. E convinse chi non capiva del perché esistevano. Chi erano. Che cosa avevano lasciato. Quale libertà inseguivano”.
Il suo fu un singolare apostolato, portato avanti fino alla morte, il 9 giugno 2003: “Pastore dei suoi fratelli, che il sentimento naturale della patria terrena gli aveva affidato -si legge ancora-. E fu conforto il suo nelle privazioni, nelle umiliazioni, nelle incomprensioni che seguivano alla persecuzione già patita, nel dolore nuovo dell’esilio, delle separazioni. Perché quelli erano gli anni in cui la violenza degli Stati e l’arbitrio delle ideologie separava senza riguardi i gruppi familiari. Sceglievano loro chi doveva andarsene, chi doveva morire e chi doveva restare. Chi era italiano e chi slavo. E chi per una ragione, o per il suo contrario, doveva restare se non voleva o andarsene se avesse voluto restare. E così si svuotarono città intere, e campagne, e paesi”.

La grinta e l’orgoglio per rispondere alle critiche

Come sottolinea il nipote, Padre Rocchi “non amava tessere le sue lodi. Ma in un mondo così composito come quello degli esuli giuliano-dalmati, dilaniato dalle tragedie della guerra e dell’esodo, c’era sempre qualcuno pronto a puntargli il dito addosso. E così era costretto a tirar fuori la sua grinta, il suo orgoglio neresinotto per mettere nero su bianco tutte le sue attività e i suoi impegni, quasi a voler dire ‘lavoro da una vita per voi, non ve ne siete accorti?’. E tanto più era pungente la critica che gli veniva mossa, tanto più quella sorta di ira pacata ammutoliva l’oppositore”.
Tuttavia la sua “gente” lo apprezzava e lo amava. “Tra gli esuli -aggiunge, infatti, Fabio Rocchi- acquistò fama straordinaria perché la grande maggioranza capì che ce la metteva tutta e che pur ottenendo per i più quel poco che la tirchieria dei politici e dei burocrati di tanto in tanto concedeva tra le spese pazze per le categorie più fortunate dei cittadini italiani, egli era comunque l’unica speranza, per qualcuno addirittura il simbolo della speranza, un legame morale con la propria storia che non deve essere reciso”.
Significativo è quanto scrive Padre Rocchi nell’ultima relazione sulla sua attività, nella quale traccia una sorta di bilancio della sua missione: “Sono lieto di aver servito, come volontario, per cinquantacinque anni l’Associazione e i profughi, anche se questo mi ha provocato un doloroso processo con l’espulsione dalla mia isola del Quarnaro perché, ha detto la sentenza, ‘aiuta i profughi che alla democratica Jugoslavia hanno preferito l’Italia imperialista’. Una condanna che è un elogio. Ho visitato la povertà e la solitudine dei campi profughi -aggiunge-, ho ricevuto migliaia di lettere. Con i profughi ho pregato, ho sofferto, ho sperato. M’auguro che essi si ricordino di me, come di un francescano profugo che ha trasformato il suo sacerdozio nella nobilissima missione di Pace e Bene”.
Alla figura del “frate degli esuli” -francescanamente mite ma ostinatamente perseverante nella ricerca della giustizia- ben si addicono le parole pronunciate l’8 aprile 1973 da Papa Paolo VI nella sua visita nella parrocchia romana di San Marco Evangelista in Agro Laurentino dove si trova il quartiere giuliano-dalmata: “Voi profughi avete sofferto molto. Con voi l’Italia si è arricchita. E’ diventata più buona. La vostra voce di dolore è stata accolta da un gruppo di uomini generosi che hanno lavorato per voi per amore di Dio e della Patria”.

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