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L’Opinione – 270607 – Il primo esodo dalmata

di Gilberto Oneto

Uno dei miti più persistenti del nazionalismo è quello dell’italianità della Dalmazia. Per molto tempo si è detto che la Dalmazia fosse abitata da una consistente minoranza italiana, che in ogni caso fosse egemone, rappresentasse la vera cultura e identità locale. L’idea insomma era che – indipendentemente dall’origine etnica – tutti si sentissero italiani o aspirassero ad esserlo. Il convincimento si basava su due assunti. Il primo aveva a che fare con la lunga appartenenza di larga parte della Dalmazia alla Serenissima e con l’identificazione semplicistica di Venezia con l’Italia. Il secondo che gli slavi appartenessero a una cultura inferiore, subordinata e che la loro evoluzione sociale e culturale non potesse che portarli alla italianizzazione. Entrambe le convinzioni si basavano su quanto era avvenuto sotto la Repubblica, quando gli indigeni effettivamente diventavano nel tempo “veneziani”, assimilando la cultura, gli usi e la lingua di Venezia. Il mito era stato creato dai patrioti dalmati italiani o italianizzati che hanno partecipato alle vicende risorgimentali, nelle quali la Dalmazia compare spesso in progetti di azioni militari.

Il dogma dell’italianità è rafforzato dall’irredentismo degli inizi del 900 e soprattutto dalla sua componente dannunziana che pretendeva la “liberazione” e l’annessione dell’intera regione fino allo spartiacque delle Dinariche. A questi principi era ispirato il Patto di Londra del 1915, con il quale l’Italia era entrata in guerra tradendo i propri alleati. La Dalmazia, ma anche l’Istria e il Tirolo meridionale sono perciò stati i 30 denari del tradimento italiano e non potevano portare niente di buono. In realtà la situazione locale era molto diversa. La Dalmazia aveva una composizione etnica molto diversificata: c’era gente che parlava italiano (in realtà veneto) , ma la maggioranza era rappresentata da croati e da serbi, con consistenti presenze tedesche, ungheresi, ebree, rumene e albanesi. Tutti erano stati per secoli felici sudditi veneziani: qui venivano reclutati i fedelissimi Schiavoni (da Schiavonia, Sciavonia, terra degli Sciavi-Slavi) . La lingua franca e colta era il veneziano e tutti lo parlavano e capivano, assieme al proprio idioma. Nell’area si parlava anche il dalmatico, una lingua neolatina, simile al friulano, che si è estinta alla fine del XIX secolo. La sola parziale eccezione era rappresentata dalla Repubblica di Ragusa che aveva conservato una sua lunga indipendenza, pur subendo la forte influenza culturale della Serenissima.

La condizione di pacifica convivenza era continuata sotto l’Austria (che si era annessa col Congresso di Vienna sia la Dalmazia veneziana che Ragusa) , che ne ha rispettato tutte le culture. Il primo censimento che tenesse conto delle etnie (in realtà delle lingue) è quello del 1910, secondo il quale in Dalmazia c’erano 610. 000 Slavi e 17. 900 Italiani (11. 600 a Zara, 2. 357 a Spalato, 444 a Curzola, 265 a Brazza, 586 a Lesina, 149 ad Arbe, 968 a Sebenico, 526 a Ragusa, 538 a Cattaro e altri piccoli gruppi sparsi) . Fiume era censita a parte e qui i risultati davano 25. 600 Italiani, 26. 600 Slavi e 6. 000 Ungheresi. Si è dibattuto sulla validità dei dati costruiti sulla “lingua d’uso” e non sulla “lingua di famiglia”: Ghiglianovich e i più accesi nazionalisti hanno sostenuto che gli Italiani fossero addirittura 100. 000, il governo italiano ha ipotizzato la cifra di 50. 000. Cambia poco. Resta il fatto che fossero comunque una piccola minoranza e che ci fosse molta commistione interetnica. Si era creata una cultura dotata di caratteri distintivi propri, originari e straordinari. Tutto è stato guastato dai nazionalismi di due Stati inventati che avevano bisogno di creare un identitarismo per giustificare la propria esistenza. Gli italiani quello italiano, capziosamente indicato come erede e continuatore di Venezia.

Gli jugoslavi per giustificare la creazione del regno SHS (serbo, croato e sloveno) che altro non era che il frutto dell’espansionismo imperialista serbo. Dopo la conclusione della grande guerra, l’Italia ha preteso il rispetto del Patto di Londra ma anche l’annessione di Fiume. Si trattava della solita ingordigia nazionalista giustificata dall’enorme costo umano della guerra appena conclusa e dal fatto che croati e sloveni avessero combattuto fino all’ultimo per l’Austria e che dovessero perciò considerarsi degli sconfitti. Queste pretese cozzavano con le preoccupazioni per una eccessiva espansione italiana da parte degli anglo-francesi, memori del modo poco limpido con cui l’Italia era entrata in guerra e come fosse sopravvissuta essenzialmente grazie all’aiuto economico ma anche militare alleato e che non meritasse perciò troppe concessioni territoriali. Si scontravano anche con le pretese e con l’abile politica diplomatica dei serbo-jugoslavi e con i principi di nazionalità sostenuti dal presidente americano Wilson. L’Italia si era già assicurata il Sud Tirolo e gran parte dell’Istria ed ora voleva annettersi un’area dove gli italiani erano solo il 2, 9% della popolazione, e concentrati in poche città della costa. Alla fine di un lungo tira e molla in cui si era anche inserita l’avventura dannunziana a Fiume e un tentativo di colpo di mano su Traù, si è arrivati agli accordi di Rapallo del 1920 con i quali l’Italia ha ottenuto la città di Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa.

L’esercito italiano sgombera completamente i territori destinati alla Jugoslavia solo nel 1922, dopo quasi 4 anni di polemiche e di manifestazioni di arroganza da parte di alcuni irresponsabili esponenti locali del nazionalismo italiano, di contrapposizioni nazionalistiche, di cattiva gestione del periodo di occupazione militare, che avevano ormai devastato il clima di civile convivenza fra le comunità e messo in difficoltà gli italiani rimasti in territorio jugoslavo. Il governo italiano chiede per loro garanzie che Belgrado si dichiara disposta a concedere a condizione che siano applicate anche agli slavi in territorio italiano. Il ministro italiano De Martino rifiuta l’accordo dicendo all’intermediario francese Berthelot che “all’Italia, in quanto grande potenza, non era richiesta l’accettazione delle garanzie per le minoranze”. È lo stesso atteggiamento arrogante tenuto in Sud Tirolo, che ha portato a una lunga scia di tragedie. Il risultato immediato di tale politica è stato il primo esodo di dalmati, molti dei quali si sono trasferiti in Italia, nelle nuove provincie istriane o nell’enclave di Zara. Serve ricordare che anche molti slavi si fingono italiani o italianizzati per usufruire dei vantaggi dell’esodo e per fuggire da una condizione economica senza prospettive.

Il governo italiano ha fornito la cifra di 2. 585 esuli (3. 381 secondo i rappresentanti locali) che, sommati ai 6. 802 italiani residenti in Jugoslavia censiti nel 1927 portano a un totale di circa 10. 000 persone che – anche comprendendo gli abitanti di Zara– dà una cifra somigliante a quella del tanto criticato censimento austriaco del 1910 e comunque molto lontana dai numeri entusiastici forniti dai nazionalisti. Se gli esuli sono relativamente pochi in numero assoluto, essi rappresentano però circa un terzo della componente italiana. Gran parte dei rimasti lascerà la Dalmazia dopo la seconda guerra mondiale. Come detto, la Dalmazia costituiva uno straordinario scenario di tranquilla e operosa multiculturalità, garantito dalla grande civiltà di Venezia e di Vienna. La soluzione più intelligente sarebbe stata la costituzione di uno Stato dalmata autonomo, una sorta di Repubblica di Ragusa ricostituita e allargata. Nel 1919 un progetto del genere era stato ipotizzato sotto la forma di una Lega delle città marine, ma i tempi non erano maturi, i due nazionalismi contrapposti erano troppo aggressivi e ottusi, e Wilson decisamente non era austriaco. Oggi quel mondo è largamente scomparso: se ne sono andati quasi tutti gli “italiani”, le comunità minori sono state disperse o assimilate, i serbi sono stati cacciati alla fine del secolo scorso, e la regione è massicciamente croata. Una civiltà straordinaria è andata perduta a causa di una sommatoria di imbecillità jugoslave e italiane. Almeno la Jugoslavia è sparita.

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