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L’Italia e la questione adriatica nel primo dopoguerra (16lug14)

 

L’influenza esercitata dalla politica estera nazionale nel processo di destabilizzazione delle istituzioni dell’Italia liberale dopo il primo conflitto mondiale e la posizione dell’Italia nel contesto internazionale sono i due fronti a partire dai quali la storica Marina Cattaruzza analizza nel suo nuovo saggio – L’Italia e la questione adriatica: 1918-1926 edito da Il Mulino, presentato a Roma in Palazzo Giustiniani, sede dell’Archivio storico del Senato, il 9 luglio scorso. Al centro dell’analisi la politica estera italiana rispetto ai nuovi assetti del confine orientale scaturiti dall’esito della Grande Guerra. Centrali per la destabilizzazione dell’Italia liberale uscita dal conflitto, secondo la studiosa, furono la questione fiumana e la debolezza del governo di Roma nei confronti di d’Annunzio e dei suoi legionari – molta parte dei quali aveva disertato l’esercito regolare – , manifestatasi anche con il flusso occulto di aiuti che Roma garantiva alla città occupata e dai risarcimenti che lo Stato versava per gli atti.

 

Lo ha ribadito la studiosa nel corso della presentazione del suo saggio Clamoroso, nell’analisi della ricercatrice triestina, il danno arrecato alle istituzioni dello Stato dalle incertezze e dalle contraddizioni di diversi esponenti dell’esercito nei riguardi dell’impresa dannunziana, con la sola eccezione del generale di Robilant, che il 30 novembre 1919 dette le dimissioni. Un clima che avrebbe condotto nel Paese uno scollamento imprevedibile tra le forze armate e settori delle massi popolari e che avrebbe creato i presupposti della successiva «resa senza condizioni» del governo e delle istituzioni liberali di fronte all’avanzare del movimento fascista di Mussolini. «Si era vinta la guerra – ha affermato Cattaruzza – ma il popolo, deviato dagli eccessi di un nazionalismo sbagliato» finì per «agire come un popolo sconfitto». Il clima di demoralizzazione, secondo Pietro Nenni citato dalla studiosa, ebbe il suo inizio con il rientro della delegazione italiana dalla conferenza di pace di Parigi, nel maggio 1919, senza che nessuno degli obiettivi prefissati da Orlando e Sonnino fossero stati raggiunti, mentre la pubblica opinione nutriva «smisurate anche se vaghe aspettative». In sintesi, la disillusione sopraggiunta presso i ceti popolari rispetto agli entusiasmi della guerra e della vittoria si tradusse in odio nei riguardi del conflitto stesso e dei suoi autori mentre le nuove istanze, che andavano diffondendosi, della rivoluzione bolscevica, con la sua visione palingenetica di un nuovo ordine sociale pareva poter assegnare un qualche significato all’enorme bagno di sangue nel quale l’Europa intera era precipitata.

 

La debole forza negoziale dell’Italia

 

Circa la posizione dell’Italia nella scena e nei rapporti politici internazionali, a giudizio di Cattaruzza diversi furono i fattori che indebolirono la forza negoziale italiana: in primo luogo, la dissoluzione della monarchia asburgica e la creazione di uno Stato jugoslavo vincitore e gravitante sull’Adriatico, quindi l’aspra competizione tra Italia e Francia per esercitare la maggiore influenza sull’area danubiano-balcanica, ed infine l’ostile atteggiamento nei confronti delle rivendicazioni italiane del presidente americano Wilson, già palesatasi nel gennaio 1918 con la formulazione dei suoi 14 punti che prevedevano per il nostro Paese frontiere basate sulla rigida applicazione del principio etnico. Senza dimenticare quelli che l’autrice del libro ha definito il «network» filo-jugoslavo britannico, costituito da autorevoli esponenti politici e culturali inglesi quali lo storico Seton Watson, il proprietario del Times e l’archeologo Arthur Evans. Fu un successo di questo «network», secondo l’analisi della studiosa, l’essere riuscito ad avvicinare alcuni influenti esponenti italiani, tra i quali Luigi Albertini (giornalista autorevole, direttore del “Corriere della Sera”, ndr), a posizioni favorevoli alla costituzione del regno dei serbi, croati e sloveni, e nettamente antiasburgiche.

 

Ma sul lungo periodo, ha aggiunto, due cause avrebbero avvelenato, sul lungo periodo, le relazioni tra il nuovo regno jugoslavo e l’Italia: l’incameramento nei nuovi confini italiani di un cospicuo numero di alloglotti, il che causò le violente reazioni dei rappresentanti croati e sloveni che gridarono alla mutilazione «al corpo della nazione» slava; e un conflitto apertosi con la Serbia in relazione alla politica intrapresa dall’Italia verso l’Albania. La svolta, in ogni caso, sarebbe giunta con le dimissioni, nel maggio 1921, di Giovanni Giolitti, dimissioni alle quali non furono estranee proprio le vicende di politica estera. Le violenze e i disordini che caratterizzarono quello stesso anno le elezioni politiche e che proseguirono nell’anno successivo, segnarono la fine di quel clima di concordia nazionale che aveva accompagnato tutto il Paese alla fine del grande conflitto.

 

Emilio Gentile:

« l’Adriatico è nel mondo un piccolo laghetto»

 

L’Adriatico non è il mondo, l’Adriatico è nel mondo un piccolo laghetto in cui abbiamo avuto il torto in questi anni di incatenare l’Italia. Con questa citazione di Gaetano Salvemini Emilio Gentile ha introdotto il suo intervento – spesso polemico – che ha ripreso alcuni nodi storiografici già evidenziati da Cattaruzza. La politica estera, in primis, e l’acquisizione dopo la guerra di vantaggi territoriali così come la firma del Trattato di Rapallo, che, a parere di Gentile, dette l’illusione anche a personalità politiche del calibro di Carlo Sforza di aver dotato l’Italia di un ruolo di grande potenza. Ma, ha proseguito lo storico, vero è che nel 1919 l’Italia si ritrovò grande potenza, insediata al tavolo dei quattro «grandi» che avrebbero deciso le sorti del continente. Tuttavia a giudizio di Gentile, l’indubbia ostilità del presidente americano Wilson nei riguardi delle richieste italiane fu preceduta dall’atteggiamento della Francia, che ben presto iniziò a guardare con sospetto le aspirazioni italiane ad una possibile egemonia sui Balcani; senza contare, ha aggiunto, che «la disfatta dell’Italia alla Conferenza della pace è stata conseguenza della disfatta dell’Austria e della nascita del nuovo Stato jugoslavo», che nessuno aveva immaginato o auspicato, neppure i croati e gli sloveni che temevano i serbi più di quanto avessero temuto gli austriaci con i quali sarebbero volentieri rimasti, compresi – ha aggiunto Gentile – gli italiani di Trento e di Trieste. Il «mito dell’irredentismo» che avrebbe permeato tutta la popolazione soggetta a Vienna sarebbe smentito dal fatto che l’Austria resistette sino al 1918 senza che esplodessero rivolte irredentiste.

 

Giovanni Sabbatucci:

«l’irredentismo eredità del Risorgimento»

«L’irredentismo è una delle eredità aperte del Risorgimento», ha esordito lo storico Giovanni Sabbatucci, e non solo per l’Italia. Il suo intervento è stato principalmente inteso a suggerire nuovi punti di vista circa le consuete categorie di giudizio in ambito storico, con particolare riferimento agli schieramenti formatisi in Italia intorno alla questione dell’intervento o meno in guerra. Ma si è detto anche d’accordo con la critica già espressa da Gentile del contradditorio atteggiamento di Sonnino e Orlando nel corso della Conferenza di Parigi: in particolare, la rivendicazione della Dalmazia, strenuamente affermata dalla delegazione italiana, non era condivisa dai vertici militari italiani in considerazione dell’estrema difficoltà di controllarla e difenderla. Senza considerare, ha aggiunto Sabbatucci, che la controparte jugoslava non era certamente favorevole a riconoscere un’eccessiva presenza o ingerenza italiana nell’area. Dall’intervento di Sabbatucci anche una revisione critica del principio di autodeterminazione, sostanzialmente inapplicabile nel complesso scenario dei territori interessati.

 

Saggio di Marina Cattaruzza a parte, la sua presentazione in Senato ha proposto – dal punto di vista della comunicazione – un’immagine contraddittoria della questione orientale: da un lato ne ha ridotto la rilevanza sullo scenario internazionale (il paradosso di Salvemini dell’Adriatico pari ad «un piccolo laghetto») ed ha enfatizzato gli aspetti per così dire “mitologici” delle posizioni a favore dell’intervento, ridimensionando anche il consenso che l’annessione all’Italia dei territori adriatici avrebbe riscosso presso la popolazione giuliana ancora soggetta all’Austria-Ungheria. Per altro verso, la ricchezza di contributi storiografici sul tema, che si registra da molti anni, segnala la centralità di quell’area negli equilibri europei del Novecento (e prima ancora): cerniera tra Occidente e Oriente, la regione giuliana e dalmata fu nei secoli, nel bene e nel male, fucina di coesistenze e di interferenze di popoli, costumi, aspirazioni, un laboratorio costante di equilibri e di rapporti tra comunità e culture molto diverse, senza contare il ruolo strategico che Trieste e Fiume – porti affacciati sul mondo – ebbero rispettivamente nelle aspirazioni di Vienna e di Budapest. Difficile credere che l’Adriatico possa ridursi alla dimensione di un chiuso specchio d’acqua se si pensa ai molteplici ingredienti della sua storia e se ancora ai nostri giorni la vasta area che vi insiste non ha trovato un equilibrio maturo e pacificato tra le tante sue componenti, come hanno tragicamente dimostrato le guerre balcaniche degli anni Novanta e la persistenza di tensioni irrisolte in quelle nazioni fondate su presupposti etnici: nelle quali nazioni le comunità italiane autoctone rappresentano, da lungo tempo, la memoria storica della natura composita di quell’area mediterranea che nel suo spazio fisico ha messo in scena inquietudini, coesistenze e ambizioni epocali.

 

Patrizia C. Hansen

 

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